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L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia - Parte 6: Diogene "il cane" - di Luciano Silva

Diogene il cinico - Cerco l'Uomo

01/07/2022

Questo contributo, riveduto e corretto, è stato estratto da un libro che scrissi nel 1995 sugli esercizi spirituali degli antichi filosofi greci dal titolo “L’amore per la saggezza – Esempi di vita nella Grecia antica” dedicato ai principali filosofi dell’antica Grecia e alla loro spiritualità. Il libro non fu mai dato alle stampe nella sua versione completa ma alcuni estratti furono pubblicati in Italia negli anni 1996 e 1997 dalla rivista di studi tradizionali “Mos Maiorum”. Tutti i diritti sono riservati. Luciano Silva.

 

Nulla si può ottenere dalla vita senza esercizio.

L’esercizio è l’artefice di ogni successo”

(Diogene Laerzio, Diogene, VI, 71)

 

 

Ci racconta Teofrasto che una volta Diogene vide un topo correre qua e là, senza meta, senza cercare un luogo ove dormire, senza paura delle tenebre né desideroso di alcuna cosa che si ritiene desiderabile. È così che Diogene trovò rimedio a tutte le sue difficoltà. Si serviva indifferentemente di ogni luogo per ogni uso, per far colazione, per dormire o per conversare. Secondo alcuni fu il primo a raddoppiare il mantello per la necessità di dormirci dentro e visto che un suo amico tardava a procurargli una casa, scelse una botte come fissa dimora. Gli unici suoi averi erano, a parte il mantello, un bastone e una bisaccia contenente una ciotola ove bere ed una piccola gavetta nella quale raccogliere le cibarie.

Il cinismo non si presentò come una scuola filosofica caratterizzata da una precisa dottrina con una identità filosofica propria ma piuttosto come una serie di elementi caratterizzanti uno stile di vita “cinico”, ovvero una pratica di vita nella quale l'amore per la verità e l'esercizio della virtù sono costantemente espressi nella vita quotidiana. È così che Epitteto definisce il cinico perfetto, come colui il quale ha la capacità di radicalizzare in senso pratico l'etica stoica. Tra le due componenti, stoica e cinica, non c'è contraddizione o contrapposizione, bensì continuità. Per diventare cinico, dice Epitteto, non basta però portare un logoro mantello, il bastone e la bisaccia ed andare in giro a stigmatizzare i costumi della gente, ma occorre saper trasferire il desiderio e l'avversione in ciò che è in nostro potere, liberarsi da ogni passione, non avere nulla da nascondere, sapere che le cose esterne non sono in nostro potere e che non sono né beni né mali.

I cinici, a parte qualche eccezione come Cratete, non presero mai moglie né ebbero figli. Per il cinico tutti gli uomini sono figli e figlie da richiamare al dovere, da educare. La sua vita è interamente dedicata al servizio di Dio e della comunità. Non prende parte alla vita politica in senso stretto, esercitando invece una azione su un piano più profondo, insegnando cioè la felicità e la libertà agli uomini. Il loro metodo di insegnamento si fondava non solo, come per Socrate, nel dialogo, ma anche e, diremmo, soprattutto nella azione esemplare, nella dimostrazione a tratti canzonatoria della insensatezza della vita profana, ovvero della vita vissuta lontano dalla saggezza e dalla verità. L'ironia dei loro dialoghi si sostituiva talvolta, quando le circostanze del momento lo rendevano necessario, con un atteggiamento irriverente avente il fine di voler forzare una porta chiusa, di causare un corto circuito mentale al proprio interlocutore. Questo atteggiamento non era ovviamente fine a se stesso, ma era legittimato dalla presenza stessa del cinico: fisico irrobustito e temprato dalle difficoltà della vita all'aperto, una certa grazia naturale ed arguzia nel fronteggiare degnamente ogni situazione, un'anima mantenuta costantemente pura, capacità di conquistare gli animi. Solo chi possedeva tali prerogative poteva pensare di intraprendere la strada dei cinici e potere così andarsene in giro a rimproverare e riprendere gli altri sulla condotta della loro vita.

Diogene incarnava l'ideale socratico dell'autarchia, cioè dell'autosufficienza del sapiente, che non ha bisogno di nulla perché non desidera nulla e possiede già il massimo bene: la virtù. Egli era senza città, senza tetto, bandito dalla patria, mendico, errante, alla ricerca quotidiana di un pezzo di pane. Una volta vide un fanciullo che beveva nel cavo delle mani e gettò via dalla bisaccia la ciotola, dicendo: “Un fanciullo mi ha dato lezione di semplicità”. Buttò via anche il catino, perché pure vide un fanciullo che, rotto il piatto, pose le lenticchie su di un pezzo di pane. Per Diogene i sapienti posseggono ogni cosa e ciò costituì il motivo per il quale ogni pezzo di pane od altro donatogli da qualcuno lo considerava una restituzione più che un dono. Ecco come ragionava: “Tutto appartiene agli dèi; i sapienti sono amici degli dei; i beni degli amici sono comuni. Perciò i sapienti posseggono ogni cosa”. Poiché alcuni lodavano chi gli aveva dato qualcosa, osservò: “E non lodate me, che fui degno di ricevere”. Interrogato perché gli uomini ai mendicanti danno l'elemosina, ai filosofi no, rispose: “Perché pensano di poter diventare zoppi e ciechi, ma filosofi mai”.

Giunto in Atene, Diogene si imbatté in Antistene, discepolo di Socrate, considerato il caposcuola dei cinici, anche se per questo gruppo non si può parlare di scuola in senso stretto. Come detto precedentemente, l'insegnamento di questi saggi non è esprimibile in una dottrina ma solo in un modo di vivere. Antistene era soprannominato "Puro Cane". Per la gente comune questo appellativo esprimeva quello che per loro era la sua vita, una vita da cani appunto, ma anche la continua vigilanza che esercitava su sé stesso e sugli altri. Pur essendo discepolo di Socrate non sembrava andasse tanto d'accordo con Platone rimproverandogli un orientamento intellettuale ed elitario. Una volta visitando Platone ammalato, vide la bacinella nella quale aveva vomitato ed esclamò: “La bile vedo qui, l'orgoglio non vedo”. Fu estremamente disponibile con tutti ma estremamente severo con i suoi discepoli. A chi lo accusava di frequentare gente malvagia rispondeva: “Anche i medici stanno con gli ammalati, senza per questo prendersi la febbre”, oppure: “I raggi del sole entrano anche nei gabinetti, senza per questo contaminarsi”. Diogene voleva diventare suo discepolo ma Antistene era restio nell'accettare nuovi alunni e quindi continuamente lo respingeva. Una volta allungò il bastone contro di lui ma Diogene gli pose la testa, aggiungendo: “Colpisci pure, ché non troverai un legno così duro che possa farmi desistere...”. Da allora divenne suo uditore e adottò il suo regime di vita frugale.

Camminava a piedi nudi sulla neve, come Socrate; lo si vedeva spesso immobile sotto la pioggia, si rotolava sulla sabbia ardente in piena estate così come abbracciava le statue rivestite di ghiaccio in pieno inverno. Temprava dunque il suo corpo in ogni modo così da prepararlo ad ogni difficoltà. Il suo cibo era miglio, orzo, lupini, ceci , lenticchie, polenta, frutta fresca e secca; questa rimase la dieta dei cinici. Anche in ciò paradossalmente si diceva disposto a mangiare carne umana, come facevano altri popoli, sostenendo che tutti gli alimenti sono contenuti in ogni cosa e pervadono ogni cosa: così, per esempio, nel pane v'è carne e nella verdura v'è pane, perché in tutti i corpi semplici e frugali penetrano delle particelle attraverso pori invisibili e diventano vapore. È chiaro però che certi suoi atteggiamenti erano volontariamente paradossali e provocatori. Diceva che è lecito rubare anche in un tempio ma insegnava l'onestà; riteneva che nulla fosse indecente e così faceva tutto in pubblico, ma visto un ragazzo arrossire gli disse: “Coraggio, questo è il colore della virtù”; contraddiceva ogni consuetudine; eppure, sosteneva che senza una legge è impossibile ogni vita comunitaria. A volte pareva un miscredente, ma insegnava che tutto è pieno della presenza degli dèi. Il suo fine era quello di Socrate: tenere deste le coscienze, impedire che le abitudini mentali o di vita rendessero la gente schiava della macchina sociale e di quella mentalità corrente che rende succubi delle opinioni e dei giudizi altrui. Per il raggiungimento di questo obiettivo, sosteneva che l'esercizio inteso come pratica costante, quotidiana, fosse indispensabile dicendo che, senza sforzo e fatica, non si ottiene niente. L'esercizio deve essere duplice: fisico e spirituale. Il primo deve integrarsi e compiersi con il secondo. La buona condizione fisica e la forza sono gli elementi fondamentali per la salute del corpo e dell'anima.

Occorre però trasferire la stessa attenzione che generalmente si presta al corpo alla cura dell'anima. Diogene portava delle prove per dimostrare che gli atleti godevano dei benefici conquistati attraverso un assiduo impegno su corpo ma che non avevano trasferito parte di questi sforzi dalla cura del corpo a quella dell'anima. Diceva Diogene che la non comprensione degli sforzi necessari è la causa dell'umana infelicità. Gli uomini si occupano solo del soddisfacimento dei loro piaceri, non capendo che il disprezzo del piacere per chi vi sia abituato è cosa dolcissima. Modello della sua vita fu Eracle perché nulla antepose alla libertà. Anche nell'esercizio, in maniera a lui tipica, sosteneva che erano da trascurare la musica, la geometria, l'astrologia e simili perché inutili e non necessarie. Tutto doveva essere sacrificato all'esercizio della virtù.

Ci racconta Diogene Laerzio: “Si stupiva così dei critici che andavano alla ricerca dei mali di Odisseo e ignoravano i propri, nonché dei musici, perché armonizzavano le corde della lira senza curarsi di ottenere l'armonia della loro anima. Si meravigliava dei matematici che guardavano al sole e alla luna e non vedevano la realtà sotto i loro occhi, degli oratori che si indaffaravano a predicare il giusto, senza mai attuarlo e dei retori che parlavano male degli avari, ma in realtà amavano il denaro all'esagerazione. Lo muovevano a sdegno anche i sacrifici agli dèi per la salute perché durante lo stesso sacrificio si banchettava a danno della salute. Trattava gli altri con estrema alterigia. Definiva "bile" la scuola di Euclide, la conversazione con Platone "perdita di tempo", gli agoni dionisiaci grandiose meraviglie per gli sciocchi,  demagoghi i ministri della massa.

Divenuto schiavo, seppe comandare anche al suo padrone che lo aveva appena comprato. Diogene fu portato a Creta e qui esposto alla vendita. Alla domanda su cosa sapesse fare, rispose: “Comandare agli uomini” ed additò un tale di Corinto che indossava una veste purpurea, Seniade, dicendo all'araldo: “Vendimi a quest'uomo: ha bisogno di un padrone”.

Diogene possedeva il meraviglioso dono della persuasione così che con le sue argomentazioni conquistava facilmente chiunque. Conquistò velocemente anche Seniade che presto gli affidò la cura dei suoi figli: insegnò loro a cavalcare, a tirar d'arco, a lanciar sassi, a scagliare giavellotti. Insegnò loro ad abituarsi alla vita all'aria aperta: li tosava fino alla pelle, privandoli di qualsiasi ornamento, educandoli ad andare in giro senza tunica, scalzi, silenziosi e a badare solo a sé stessi nelle strade. Diogene curò anche l'amministrazione domestica tanto che Seniade andava in giro dicendo: “Un demone buono è venuto in casa mia”. Il suo stile di vita era frutto di una profonda riflessione e di una severa ascesi; all'origine della sua filosofia e dei suoi atteggiamenti ci fu il responso dell'oracolo di Delfi, come per Socrate.

 

La vita di Diogene il “cane”

Era natio di Sinope, ove nacque nel 404 A.C. da un banchiere, Icesio, con il quale rimase coinvolto nel tentativo di falsificare la moneta corrente tanto da guadagnarsi l'esilio. A chi gli rimproverava il suo passato rispose: “E' vero; un tempo io ero quello che tu sei ora; ma come sono io ora, tu non lo sarai mai”. E ad un altro che gli rivolgeva lo stesso rimprovero: “Allora senz'altro orinavo sulla gente, ma ora non più”. Era proprio dei cinici usare indifferentemente ogni luogo per ogni esigenza. Diogene faceva tutto alla luce del giorno, anche ciò che riguarda azioni nel dominio di Demetra e Afrodite. Una volta un tale lo introdusse in una casa sontuosa e gli proibì di sputare. Diogene allora si schiarì profondamente la gola e gli sputò in faccia, dicendo di non aver saputo trovare un luogo peggiore. I cinici godevano di una estrema libertà di azione e di parola, indifferenti della carica sociale rivestita dai loro interlocutori o dal luogo ove erano, perseguivano i loro obiettivi senza vincolo alcuno. Interrogato su quale vantaggio avesse tratto dalla filosofia, rispose: “Se non altro, l'essere preparato ad ogni evento”. Ecco come si svolse l'incontro con l'imperatore Alessandro.

Diogene stava prendendo il sole al Craneo quando Alessandro lo incontrò e gli disse: "Io sono Alessandro, il gran re", e lui risposte, "E io sono Diogene, il cane". E Alessandro: "Ma non hai paura di me?" - " Che cosa sei, un bene o un male? " - " Un bene! " - " E chi mai ha paura del bene? ". E alla richiesta di Alessandro: "Chiedimi qualunque cosa vuoi", rispose: " Che ti sposti, perché mi stai facendo ombra ". Alessandro ne avrebbe provato una grande ammirazione per lui, come anche lo stesso Filippo, tanto da dire che se, non fosse nato Alessandro, avrebbe voluto nascere Diogene. Però Diogene soleva dire: “Sono uno di quei cani che tutti lodano, ma nessuno di quelli che lo lodano osa uscire con lui a caccia”. Diogene infatti era chiamato "Cane", come del resto il suo maestro Antistene. Interrogato per quali azioni fosse chiamato cane, rispose: “Scodinzolo festosamente verso chi mi dà qualcosa, abbaio contro chi non da niente, mordo i ribaldi”. Interrogato che razza di cane egli fosse: “Quando ho fame un Maltese, quando sono sazio un Molosso, di quelle specie dunque che i più lodano ma con cui tuttavia non hanno il coraggio di uscire a caccia per timore di fatica. Così voi non potete convivere con me, perché avere paura di soffrire”.

Mentre faceva colazione un giorno nella piazza del mercato, la gente che gli era attorno ripeteva: “Cane, cane..”, e Diogene: “Cani siete voi che mi state attorno mentre faccio colazione”. La gente lo evitava volentieri. Due uomini che cercavano di sfuggirlo si sentirono così apostrofare: “Non abbiate paura: il cane non mangia bietole”. Talvolta rispondeva all'atteggiamento denigratorio di qualcuno con altrettanta risposta così da cercare di rompere quella convenzione sociale ormai consolidata che lo vedeva come cane rabbioso. Durante un convito alcuni giovani gli gettarono le ossa avanzate come ad un cane. E Diogene andandosene ci orinò sopra alzando la gamba come un cane.

Platone lo definì "un Socrate impazzito", ma per capire il diverso atteggiamento dei due filosofi bisogna ricordare che essi appartengono a due generazioni molto diverse. Al tempo di Socrate la gente era più disponibile ad ascoltare e a farsi mettere in crisi; due generazioni dopo bisognava provocare e frustare per farsi ascoltare e sperare di ottenere qualche effetto. Al tempo delle conquiste di Alessandro si era formata una nuova generazione, staccata dai vincoli della tradizione e caratterizzata da un freddo realismo legato ad una costante preoccupazione per il proprio utile particolare. Ci si compiaceva più dei progressi esteriori, delle conquiste scientifiche, dello splendore e della ricchezza. Di contro, Diogene sosteneva che quel progresso era del tutto superfluo perché accresceva i bisogni senza appagarli e generava una crescente insoddisfazione. Dopo secoli di storia, osservando per cosa la maggioranza delle persone oggi si dichiara soddisfatta o insoddisfatta, ne deduciamo che non abbiamo imparato nulla dai nostri illuminati maestri. Egli proponeva allora il ritorno alla natura, all'immediatezza e alla semplicità per contrastare il perbenismo esteriore e l'artificiosità dilagante. Per far ciò, però, doveva ricorrere a metodi di forte impatto, ad atteggiamenti di rottura nei confronti di quella società "patinata" che si stava formando.

Questa fu la principale preoccupazione di Diogene: ritrovare l'UOMO.

 

Cerco l’uomo

Durante il giorno, si vedeva spesso Diogene andarsene in giro con una lanterna accesa, e a chi gli chiedesse perché teneva la lanterna accesa rispondeva: “Cerco l'uomo”; per questo andava gridando ripetutamente che gli dèi hanno concesso agli uomini facili mezzi di vita, ma anche che tuttavia li hanno tolti alla vista umana, perché essi cercano focacce con miele, unguenti e simili. Perciò a un tale che si lasciava calzare da un servo, disse: “Non sei ancora felice se costui non ti soffia il naso: verrà la perfetta felicità quando avrai perduto l'uso delle mani”. A lui che tornava dai giochi olimpici un tale chiese se vi fosse molta folla, e Diogene rispose: “Molta folla, pochi uomini”. Paragonava gli uomini dissoluti a quegli alberi di fico che crescono sui precipizi, i cui frutti l'uomo non saggia, ma i corvi e gli avvoltoi mangiano.

Per questo sosteneva l'esigenza da parte dell'uomo di dedicarsi alla filosofia. Ad un tale che gli dichiarò: “Non sono adatto per la filosofia”, Diogene rispose: “Allora, perché vivi se non ti curi di vivere bene?”. Stimolava continuamente gli uomini ad intraprendere una scelta di vita filosofica. Vedendo uno sciocco che tentava di accordare una cetra gli disse: “Tu che accordi i suoni di un legno, non ti vergogni di non accordare l'anima alla vita?”. A chi gli disse: “Tu non sai nulla eppure fai il filosofo”, rispose: “Aspirare alla saggezza, anche questo è filosofia”. Per Diogene la filosofia fu sempre una pratica di vita e mai un semplice esercizio del sapere scisso da ogni implicazione nel quotidiano.

Pregandolo Egesia di prestargli qualcuno dei suoi scritti, rispose: “Sei sciocco, Egesia, i fichi secchi li preferisci reali, non dipinti, ma la pratica di vita vuoi farla sui libri e non nella realtà quotidiana”. Tutta la sua opera fu volta a stimolare l'esigenza del cambiamento, sempre legata ad una faticosa ma concreta azione di rinnovamento e di purificazione dal mondo illusorio delle immagini provocate da desideri mai soddisfatti o da avversioni senza mai sfogo alcuno. A quelli, ad esempio, che si lasciavano sconvolgere dai sogni diceva: “Per tutto ciò che realmente fate quando siete svegli non vi tormentate, ma dedicate tutta la vostra cura a intendere ciò che immaginate nel sonno”.

Uscendo una volta da un bagno pubblico e chiedendogli uno se molti uomini facessero il bagno, rispose di no; chiedendogli un altro se vi fosse molta gente, rispose di sì. Una volta Diogene gridò: “Ehi, uomini!”, e venne della gente che egli picchiò col bastone che portava sempre appresso, dicendo: “Uomini chiamai, non canaglie!”. Volendo dare una lezione ad un tale che si vergognava di raccogliere un pezzo di pane che gli era caduto di mano, gli legò al collo un vaso e lo trascinò attraverso il Ceramico (il quartiere dei vasai ad Atene).

Talvolta qualcuno reagiva al suo atteggiamento irriverente, come quando entrato mezzo ubriaco in un festino di giovani fu accolto a legnate. Il giorno dopo scrisse su una tavoletta tutti i nomi di coloro che lo avevano picchiato e se ne andava in giro con la tavoletta appesa al collo ricambiando così l'offesa ricevuta additandoli al disprezzo ed al biasimo di tutti. Talvolta invece alcuni lo schernivano per il suo modo di fare. A chi gli disse che parecchi lo deridevano rispose: “Forse anche gli asini deridono loro. Ma né quelli si curano degli asini né io di loro”; oppure ad un altro che gli faceva notare come molti lo deridevano rispose: “Ma io non mi derido!“. In ogni caso Diogene godeva dell'affetto degli Ateniesi tanto che quando un giovane gli ruppe la botte, gli ateniesi batterono il giovane e diedero a Diogene non una casa, sapendo che la avrebbe rifiutata, ma un'altra botte ove poter dimorare.

Anche per Diogene, dunque, una vita all'insegna della semplicità e dell'esercizio della filosofia, intesa questa non come l'acquisizione di un sapere libresco o dottrinario, ma come la cura quotidiana della propria anima. Ad un tale che leggeva da moltissimo tempo, quando giunse finalmente alla conclusione del libro, Diogene disse: “Coraggio, uomini, vedo terra”. Proprio il sapere libresco ed intellettuale fu ciò che Diogene rifiutava e criticava a Platone col quale pare non corresse una estrema simpatia. Una volta Diogene mentre mangiava fichi secchi incontrò Platone e l'invitò ad assaggiarli. Platone prese e mangiò, e Diogene: “Avevo detto di assaggiarli, non di divorarli”. Un gruppo di filosofi, tra cui Platone, si scervellava e discuteva per trovare la definizione più esatta dell'uomo. Alla fine, si trovarono d'accordo: “L'uomo è un animale bipede e implume”, e pare che questa definizione ebbe successo. Il giorno dopo Diogene si presentò in aula con un gallo spennato esclamando: “Ecco l'uomo di Platone”.

Questo era il programma di Diogene: contrapporre alla fortuna il coraggio, alle convenzioni sociali la natura, alla passione la ragione. Dobbiamo riconquistare la libertà che ora è rimasta all'animale: correre qua e là senza meta, senza preoccuparsi ove dormire, senza avere paura del buio, senza aspirare a nulla di ciò che si considera desiderabile. Questo programma di vita riguarda tutti coloro che volessero diventare filosofi, chiunque voglia essere cittadino del mondo e partecipe all'unica costituzione politica retta, quella che regola l'universo. Vi è un solo modello, diceva Platone, al quale valga la pena conformarci: quello fissato nei cieli. È una meta altissima ma è l'unica che l'uomo può proporsi per non naufragare.

 

Si tramanda che Diogene morì all'età di 90 anni. Lo rinvennero i suoi discepoli per strada, scostando il mantello che stranamente ricopriva il suo corpo immobile non abituato a dormire per una notte intera. Diverse versioni corrono sulla sua morte. Taluni dicono che sia morto dopo aver mangiato un polpo crudo ed essersi così preso il colera. L'ipotesi più frequentemente riportata fu che egli morì volontariamente trattenendo il respiro. Questa versione ricorre anche in Cercida, filosofo cinico di Megalopoli, il quale così si esprime nei suoi Meliambi: “Non più, egli che un tempo fu cittadino di Sinope, celebre per il suo bastone, per il doppio mantello, e per nutrirsi di etere; ma se ne andò al cielo, premendo il labbro contro i denti e mordendo il respiro. Egli fu veramente Diogene, un vero figlio di Zeus, cane del cielo”.

Altri narrano che Diogene morendo, diede ordine di gettare via il suo corpo insepolto perché tutte le bestie potessero cibarsene oppure di buttarlo in una fossa e di ammonticchiarci su un po' di polvere. Il suo corpo venne in realtà sepolto presso la porta dell'Istmo. Sul suo sepolcro posero una colonna e su questa un cane di marmo. Successivamente anche i suoi concittadini lo onorarono con statue di bronzo, su cui scrissero questi versi: "Anche il bronzo cede al tempo e invecchia, ma la tua gloria, o Diogene, rimarrà intatta per l'eternità, poiché tu solo insegnasti ai mortali la dottrina che la vita basta a se stessa e additasti la via più facile di vivere ".

 

Luciano Silva

 

NOTA:

L'indice completo dei vari capitoli, ciascuno dedicato agli esercizi spirituali e alla vita dei vari filosofi, lo trovi qui (con il link diretto al capitolo pubblicato nel presente sito). Tutti i diritti sono riservati.

  1. Parte 1: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: L'oracolo di Delfi 

  2. Parte 2: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: La Filosofia antica

  3. Parte 3: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Licurgo

  4. Parte 4: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Socrate

  5. Parte 5: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Epitteto

  6. Parte 6: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Diogene "il cane

  7. Parte 7: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Epicuro

  8. Parte 8: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Proclo

  9. Parte 9: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Pitagora

 

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