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L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia - Parte 5: Epitteto - di Luciano Silva

Epitteto - La scelta morale di fondo

01/07/2022

Questo contributo, riveduto e corretto, è stato estratto da un libro che scrissi nel 1995 sugli esercizi spirituali degli antichi filosofi greci dal titolo “L’amore per la saggezza – Esempi di vita nella Grecia antica” dedicato ai principali filosofi dell’antica Grecia e alla loro spiritualità. Il libro non fu mai dato alle stampe nella sua versione completa ma alcuni estratti furono pubblicati in Italia negli anni 1996 e 1997 dalla rivista di studi tradizionali “Mos Maiorum”. Tutti i diritti sono riservati. Luciano Silva.

 

 

"Non è con l’ottenimento di ciò che si desidera che si consegue la libertà, bensì con la rimozione del desiderio”

(Diatribe, VI, 175)

 

 

 

 

 

 

 

 

Un giorno un nobile senatore romano, Giulio Nasone, si recò con suo figlio ad assistere ad una lezione di Epitteto. Alla vista del nuovo ospite, Epitteto smise di parlare ma, invitato a proseguire il suo discorso, non poté fare a meno di assolvere il suo compito di filosofo costringendo l'interlocutore, così come faceva Socrate, all'esame di coscienza. E Nasone: "Ma è fastidioso per un uomo già anziano essere sottoposto ad esame, specie se, per volere della sorte, ha preso parte a tre campagne militari". Ed Epitteto:" Lo capisco anch'io. E infatti tu sei venuto da me come se non ti mancasse niente. E, d'altra parte, che cosa potresti immaginare che ti manchi? Sei ricco, hai forse dei figli, una moglie e un gran numero di servi, sei noto a Cesare, a Roma hai molti amici, compi i tuoi doveri, sai rendere bene a chi te ne fa e il male a chi te ne fa. Che cosa non hai? Se ti mostro che sono le cose più necessarie e di maggior rilievo per la felicità, e che fino ad oggi ti sei occupato di tutto fuorché di quel che conviene, e se aggiungo il tocco finale: non sai che cosa è Dio né che cos'è l’uomo, ne cos'è il bene e il male: ebbene, forse, parlando di queste altre cose, puoi sopportare le mie parole; ma se dico che tu non conosci te stesso, come puoi sopportarmi e subire l’esame rimanendo lì al tuo posto? Non è affatto possibile, subito te ne vai adirato. Pur tuttavia, che male ti ho fatto? A meno che anche lo specchio non faccia male a chi è brutto, per il fatto di rivelargli com'è; a meno che anche il medico non oltraggi il paziente, quando gli dice: " Uomo, ti pare di non avere niente, ma hai la febbre; per oggi non mangiare, bevi acqua". E nessuno dice:" Quale oltraggiosa offesa! " Ma se tu dici a qualcuno:" I tuoi desideri soffrono di infiammazione, le tue avversioni sono basse, i tuoi disegni incoerenti, i tuoi impulsi in disarmonia con la natura, le tue opinioni casuali e false", quello subito se ne va dicendo: "Mi ha oltraggiato!". Questo insegnava lo schiavo frigio Epitteto.

Ecco come Epitteto descrive una similitudine attribuita a Pitagora, circa la vita degli uomini del suo tempo. Le cose che ci accadono nella vita sono un po' come quelle che accadono in una fiera. Vi si conducono per la vendita mandrie di animali e buoi; la più parte dei presenti è lì per vendere o per comprare. Pochi sono quelli che vengono alla fiera per godersi lo spettacolo, per vedere come si svolge e perché, chi sono gli organizzatori e a quale scopo l’hanno organizzata. Lo stesso anche qui, in questa fiera della vita: alcuni, come le mandrie di animali, non si danno pensiero che del foraggio: tutti quanti voi che vi date da fare per il patrimonio, i campi, i servi e le cariche, tutto ciò non è che foraggio. Pochi sono coloro che contemplano il cosmo e la sua causa e riflettono sulle conseguenze che derivano dall'ordine del mondo. Questi sono coloro i quali scelgono di intraprendere una scelta di vita filosofica. Il paradosso è che costoro spesso vengono derisi dagli altri uomini, così come le bestie, se avessero un po' di raziocinio, prenderebbero in giro quelli di loro che dessero valore a qualcos'altro che al foraggio. Ecco che i più vanno in giro con l'aria di essere qualcuno e non sono nessuno; sempre in ansia di avere ciò che non hanno, sempre in balia delle passioni e degli impulsi, sempre in preda a facili entusiasmi ed emozioni, sono come eterni bambini che oscillano dal pianto all' euforia. In questo stato, l’attività diventa inquietudine ed il tempo libero ozio e la vita dell'uomo trascorre come quelle degli animali per i quali è sufficiente mangiare, bere, riposare, accoppiarsi e compiere, ciascuno, tutte le altre cose che richiede loro natura.

All'uomo invece, dice Epitteto, Dio ha concesso anche la facoltà di comprendere tutte queste cose, ovvero di essere non solo spettatore ma anche interprete delle sue opere, “ ..perciò è vergognoso per l'uomo cominciare e finire dove cominciano e finiscono anche gli esseri senza ragione; bisogna piuttosto che egli cominci di lì e finisca là dove finisce la nostra natura. Essa finisce nella contemplazione, nella comprensione delle cose e in una condotta di vita in armonia con la natura. Fate attenzione dunque, raccomanda Epitteto, a non morire senza aver contemplato queste cose”. Come disse Crisippo: "L'uomo è nato per contemplare e per imitare il mondo". Anche Epitteto, dunque, come tutti i filosofi della antichità, raccomandano di intraprendere al più presto una scelta di vivere conforme alla natura ovvero decidersi ad indirizzare la propria vita non più verso l'abbandono incontrollato ai piaceri, ai soldi, ai beni materiali o agli onori, ma nel verso della saggezza. Dice Epitteto: “I filosofi dicono che bisogna apprendere innanzitutto questo principio: che Dio esiste e provvede a tutto, che non è possibile nascondergli non solo le nostre azioni, ma anche i nostri pensieri e i nostri desideri”. Seneca diceva:” Dio vede ogni cosa”. Poi bisogna apprendere quali sono le qualità degli dèi. Infatti, chi vuole piacere e obbedire agli dèi, deve adoperarsi, per quanto gli sia possibile, al fine di assimilarsi a quelli nelle qualità che si scoprirà che essi posseggono.

Il tema della homoìosis theò (la somiglianza a Dio) è costante in Platone che ci dice che a causa del male, che è imperituro, “conviene adoperarci a fuggire di qui al più presto per andarcene colà; e questo fuggire è assomigliarsi a Dio, per quanto possibile, e assomigliarsi a Lui vuol dire acquistare giustizia e santità con intelligenza”. Decidersi di cambiare dunque, essere disponibili a rivoluzionare mentalità e stile di vita senza rimandare sempre al giorno dopo. La scelta filosofica però non porta alla conquista di beni materiali od esteriori e non è priva di sacrificio e dolore. Così come il malato è consapevole di doversi sottoporre a cure lunghe e dolorose per rimuovere una malattia dal corpo così la filosofia, medicina dell'anima, richiedere un lavoro lungo e faticoso per raggiungere il suo obiettivo: la tranquillità e la libertà interiore. “La filosofia, - dice Epitteto, non promette di assicurare all'uomo alcuni degli oggetti esterni; se no, si farebbe carico di un oggetto estraneo alla sua specifica materia; come, infatti, la materia del falegname è il legno e quello dello scultore il bronzo, così la materia dell'arte di vivere è la vita di ciascuno”. Ed è proprio su questa che bisogna agire così da conservare in ogni occasione, la "parte dominante dell’anima " (lo hegemonikòn) in accordo con la natura.

 

Vita di Epitteto e prescrizioni sul vivere “filosofico”

Epitteto nacque nel 50 d.c. a lerapoli, città famosa per il culto di Cibele, tra le più note e ricche delle Frigia meridionale. Ancora molto giovane venne portato a Roma dove fu schiavo di Epafrodito, un liberto segretario di Nerone. I rapporti con il suo padrone pare non fossero dei migliori: alcuni studiosi ritengono che fu proprio Epafrodito a rendere zoppo Epitteto, altri però attribuiscono la sua infermità ad una malattia.

Dopo il 69 d.c., un incontro trasformò la vita di Epitteto. Con il consenso del padrone iniziò a frequentare le lezioni di Musonio Rufo, un filosofo stoico nativo di Bolsena e molto noto in quel tempo. Fu proprio con Rufo che Epitteto comprese la necessità di cambiare vita, di armonizzare le azioni compiute quotidianamente con il pensiero, in sostanza la filosofia come pratica di vita. E così che, come Socrate, Epitteto sottolineò la necessità di trasformare il proprio pensiero in azione in quanto il progresso non consiste del diventare abile a leggere o a comprendere i libri dei filosofi (riferendosi in tal caso ai libri contenenti le dottrine delle Stoa), ma nello sforzarsi di mettere in pratica gli insegnamenti, ossia nel perseguire la Virtù. Ma in che cosa consiste l'esercizio della Virtù per Epitteto? Per Epitteto l'esercizio della Virtù consiste nel mettere in pratica tutta una serie di accorgimenti che ci consentono di raggiungere gli stati ad essa connessi: la felicità, l'impassibilità (ataraxia) e serenità, l'indipendenza di giudizio. Dice Epitteto: “In che cosa, dunque, consiste il progresso? Se uno di voi, allontanandosi dagli oggetti esterni, rivolge i suoi sforzi alla scelta morale, se la sottopone al cimento dell'esercizio, così che, alla fine, risulti in armonia con la natura, elevata, libera, incoercibile, libera da impacci, fedele e rispettosa”,…, “se quando si alza al mattino, rispetta e conserva questi propositi, si lava da uomo fedele e rispettoso, mangia alla stesso modo, sforzandosi di attuare praticamente, qualunque circostanza gli si presenti, i principi della sua condotta, come il corridore si comporta in ogni circostanza da corridore e il declamatore da declamatore: ebbene, ecco, in verità, chi progredisce, ecco chi non inutilmente ha lasciato il suo paese”, intendendo con ciò chi ha scelto di lasciare la vita di sonno per la filosofia. L' esercizio della filosofia appare dunque in Epitteto come una scelta di vita strettamente connessa ad una disciplina ascetica che parta dal corpo per salire via via verso l’anima, una azione del tutto spogliata da ogni vano esercizio intellettuale solo per il piacere di fare sfoggio di cultura o dell'arte oratoria. Solo l’azione in quanto spontanea manifestazione di un esercizio interiore appare giustificata ed appare anche l'unico indizio per verificare i progressi compiuti.

Dice Epitteto: “Tu, dunque, mostrami il progresso della tua azione. Supponiamo che io dica ad un atleta: ‘Fammi vedere le tue spalle’, e quello mi risponde: ‘Guarda i miei manubri’. I manubri sono affar tuo! Io voglio vedere l'effetto che i manubri hanno prodotto (sulle tue spalle)”. E' per questo motivo che Epitteto nei suoi discorsi si riferiva spesso a Socrate, a Diogene, a Crisippo, ovvero portava come esempio nelle sue diatribe proprio quei filosofi che più di altri condussero una vita perfettamente coerente con la loro dottrina. Non è possibile contemplare la verità a cui il filosofo aspira senza armonizzare e coinvolgere il corpo e le emozioni, gli affetti e la volontà. È così che Epitteto apprese da Musonio Rufo una certa disciplina ascetica che gli consentì di costruire le fondamenta per poi salire a curarsi dei piani alti dell'edificio umano. Anzitutto era normale farsi crescere barba e capelli. Vedere un uomo con barba e capelli lunghi induceva a pensare che quell'uomo avesse accettato la disciplina filosofica. Ogni tanto si accorciavano i capelli, non per abbellirsi ma solo per eliminare ciò che era di troppo. Anche per l'abbigliamento c'erano delle regole: semplice e funzionale come una armatura, l'abito doveva servire a proteggere il corpo e non a pavoneggiarsi. Erano quindi proibiti i nastri, i fiocchi e le altre ricercatezze perché le vesti morbide e soffici rendono i corpi flosci e molli. Per temprare il carattere, Rufo insegnava a dormire sul duro, magari per terra, a camminare scalzo, ad affrontare il gelo dell'inverno e il caldo dell'estate, a sopportare la fame e la sete. Darsi una disciplina non significativa necessariamente fare una vita speciale anche se la vita all'aria aperta, in campagna, tra le occupazioni agricole, diceva essere più adatta a chi dedicava alla filosofia. La rinuncia al matrimonio non è un requisito essenziale; filosofi come Pitagora, Socrate e Cratete di Mallo erano sposati. Il filosofo però deve mostrare coerenza anche se sposato perché la natura esige il rispetto delle regole anche nella vita sessuale. Ad esempio, dice Epitteto: ”Sono leciti quei piaceri venerei che si hanno nel matrimonio in atti che si compiono per la procreazione della prole; quelli che invece mirano al semplice godimento sono illeciti ed illegali anche se tra coniugi”. Indicazione che a noi moderni suona come retrograda e del tutto inattuale, ma occorre leggere le indicazioni degli antichi filosofi contestualizzandoli alla loro epoca ma non per questo sottrarsi dal poterli considerare suggerimenti preziosi senza spazio n’è tempo in base alla coscienza e intendimento di ciascuno. Un po' come insegnava Licurgo a Sparta, Musonio Rufo consigliava una vita semplice ed austera prevedendo le comodità necessarie ma evitando lussi inutili. Diceva che era meglio circondarsi di amici piuttosto che di belle pareti, di marmo e di legno pregiato; perciò, sono migliori le case comuni e a buon mercato di quelle rare e costose. In fondo, diceva: “ci si disseta allo stesso modo da una tazza di terracotta e da una coppa d'oro, ma quanta più libertà e quanti meno pensieri!”. Musonio parlava spesso anche della dieta e con insistenza. Il cibo semplice va preferito a quello elaborato, quello comune a quello ricercato, quello omogeneo a quello che non lo è. E diceva: “Omogeneo all'uomo è quello che si trae dalle piante della terra, non solo dai cereali, ma anche da altre piante, poi quello che si ricava dagli animali senza ucciderli, ma fornito da essi in altro modo, e di questi cibi i più adatti sono quelli che si possono prendere come si trovano, senza necessità di fuoco, che sono quelli più pronti: frutta, certi cereali, latte, formaggi, miele. Del resto, vanno bene anche gli altri, che hanno bisogno di fuoco, sia cereali che ortaggi”. Musonio riteneva invece piuttosto animalesco e più confacente agli animali selvaggi il vitto carneo; egli diceva che: “E' troppo greve e contrario al pensiero e all'intelligenza, perché l'esalazione che da esso emana è piuttosto torbida ed ottenebra l'anima e questa è la ragione per cui riescono più pigri nel pensare quelli che fanno uso di tali nutrimenti”. Inoltre, aggiunge: “L'uomo, essendo sulla terra l'essere più simile agli dèi, deve nutrirsi nel modo più simile a loro; quindi il cibo deve esser il più leggero e puro possibile. In tal modo anche l'anima nostra sarebbe pura e asciutta; tale essendo, sarebbe ottima e sapientissima. (...). Ora noi invece ci nutriamo molto peggio degli animali privi di ragione”.

Tutto questo apprese Epitteto, che insegnava a sua volta anche a curare adeguatamente il proprio corpo raccomandando la pulizia, anche se riteneva necessario evitare di prestare una eccessiva attenzione al proprio corpo in quanto la vera pulizia che sia necessaria mantenere è quella dell'anima. Il corpo deve essere trattato come un asino da soma in quanto per sua natura è fango, soggetto all'impedimento, alla costrizione e schiavo di ogni cosa più forte, e quindi dobbiamo abbandonarlo senza esitazione o rimpianto alcuno nel momento in cui ci viene tolto. Chi iniziava a dedicarsi alla filosofia però tendeva all'inizio ad imporsi condizioni troppo austere, a mortificare il corpo. Epitteto condannava questi eccessi, dicendo che il filosofo deve presentarsi in maniera impeccabile, anche esteriormente, in modo tale che possa dire: "Non ho niente, né casa, né vestiti, né patria e di niente ho bisogno, vivo sereno e tranquillo più dei ricchi e sono sano e forte". Epitteto raccomandò inoltre una certa attenzione verso il proprio carattere, suggerendo una serie di indicazioni sul comportamento. Ci dice Epitteto: ”Sta per lo più in silenzio, o parla quando è necessario, esprimendoti concisamente; (...) soprattutto non parlare della gente, per biasimare o lodare o fare confronti”. “Non ridere molto né di molte cose, né sguaiatamente”. “Rifiuta affatto di giurare, se ti è possibile”. “Evita di banchettare con persone comuni e aliene alla filosofia; e, se mai se ne presenta l'occasione, tieni ben vigile la tua attenzione, per evitare di cadere nel modo di essere dei profani”. “Se qualcuno ti riferisce che il tale parla male di te, non cercare di difenderti, ma rispondi:" Si, di fatti ignora gli altri miei difetti; se no non avrebbe menzionato solo questi”. “Non è necessario andare troppo spesso agli spettacoli. Se è indispensabile, astieniti completamente dall'urlare, dal deridere qualcuno e dall'agitarti spesso”. “Conversando con gli altri, evita di ricordare troppo spesso e smodatamente certe azioni o certi pericoli che hai corso. Infatti, non è piacevole per gli altri ascoltare le tue avventure, quanto lo è, invece, per te raccontarle”. “Evita di far ridere, perché in questa maniera si scivola facilmente nei modi delle persone comuni ed è facile trascendere ad un linguaggio osceno”.

Spesso, dice Epitteto, chi sceglie di incamminarsi sulla strada spirituale pur essendo all'inizio tende a giudicare o far notare i limiti di coloro che non hanno fatto la sua scelta, dimenticandosi che ne era succube poco tempo prima. Perciò raccomanda a tutti di bandire l'ostentazione delle proprie scelte e di applicare una estrema tolleranza verso gli altri: ”Se ti sei accomodato a vivere con semplicità riguardo al corpo, non vantartene; e se bevi solo acqua, non dire in ogni occasione che bevi solo acqua. Se vuoi esercitarti alla fatica, fallo per te stesso, e non per farti vedere dagli altri; non abbracciare le statue, ma quando ti capita di avere molta sete, prendi un sorso d'acqua fresca, poi sputalo, e non dirlo a nessuno” (come faceva Apollonio di Tiana). Tutte le lezioni di Epitteto si organizzavano sottoforma di diatribe ovvero dialoghi che Epitteto avrebbe tenuto con degli interlocutori, talvolta anonimi o fittizi, aventi lo scopo di stimolare l'uditore e convincerlo a ripiegarsi su sé stesso e a riproporsi di mutare condotta, allo stesso modo di Socrate. Spesso le risposte sono messe in bocca a filosofi, eroi o addirittura dei. Epitteto si rifa' infatti a più riprese al metodo socratico aggiungendo alle sue diatribe talvolta una certa qual pungente ironia canzonatoria, concessagli tra l'altro dalla libertà di parola (παρρησία, parresia) di cui godevano anche i cinici.

Arriano di Nocomedia, discepolo di Epitteto intorno al 117-120, ne ha trascritte più di una cinquantina e ce le ha tramandate. Sua è, oltre alla “Diatribe”, la stesura del “Manuale” (Encheiridion, da tà en cheirì = cose che stanno in mano), una specie di prontuario contenente “le cose più importanti e necessarie del filosofo”. L'esame di coscienza esigeva una rivisitazione continua dei principi della dottrina stoica e quindi un manuale che contenesse in brevi sentenze tali principi risultava particolarmente utile. Per comprendere la via che Epitteto disegna per il raggiungimento della virtù occorre partire dalla fondamentale distinzione che Epitteto pone in tutte le cose.

 

Il Bene, il Male è l’Indifferente: l’esercizio della filosofia

Epitteto identifica l'educazione filosofica con la conoscenza di ciò che è proprio, cioè che dipende da noi, da ciò che è di altri, cioè che non dipende da noi. “Il fine - dice Epitteto - consiste nel seguire gli dèi; l'essenza del bene consiste nell'uso quale deve essere delle rappresentazioni”. Ci dice, inoltre, che solo un corretto uso delle rappresentazioni, ovvero delle modalità con cui le cose si presentano ai nostri occhi, ci permette di attribuire alle cose il loro giusto valore. Il nostro giudizio di valore deriva dalla classificazione che generalmente facciamo delle cose in bene e male, quasi sempre errato perché fondato proprio su ciò che non dipende da noi, ovvero su ciò che non è in nostro potere giudicare. Questa bipartizione delle cose (detta dihaìresis) presente nel pensiero di Epitteto deriva chiaramente dalla dottrina della Stoà antica che distingueva le cose in beni, mali e indifferenti, relegando le prime due classi solo ed esclusivamente alla sfera morale mentre al di fuori di questa non vi sono né beni, né mali ma solo indifferenti. Tali sono la vita, la morte, la salute e la malattia, giovinezza e vecchiaia, ricchezza e povertà, bellezza e bruttezza, ecc...

Epitteto riformula la dottrina stoica in modo più rigoroso trasformando la tripartizione nella bipartizione seguente. Le cose si dividono in due classi:

1.           Quelle che costituiscono le nostre attività, come le opinioni, i desideri, gli impulsi e le ripulse;

2.           Quelle che non fanno parte delle nostre attività, come il corpo, il patrimonio, la reputazione, le cariche e simili.

Le prime hanno la caratteristica di essere in nostro potere e di essere incoercibili, le seconde di non essere in nostro potere e di essere quindi estranee e coercibili. Di conseguenza, le prime sono libere, in quanto dipendono da noi. Beni e mali possono essere ricercati solamente nelle prime, mai nelle seconde. Dice Epitteto:”...ricorda, dunque, che se riterrai libere quelle che sono per natura schiave, e tue proprie quelle estranee, sarai impedito, ti affliggerai, sarai turbato e ti lamenterai degli dei e degli uomini; mentre, se riterrai tuo proprio solo quello che è tuo, ed estraneo, com'è realmente, quel che è estraneo, nessuno ti costringerà mai, nessuno ti impedirà, non ti lamenterai di nessuno, non accuserai nessuno, non farai niente contro voglia, non avrai alcun nemico, nessuno ti farà danno, e neppure, in effetti, potrai subire alcun danno”. Nelle Diatribe, leggiamo ancora: ”...questo è il compito principale della vita: poni una distinzione tra le cose e separa le une dalle altre, e dì: ’Gli oggetti estranei non sono in mio potere, la scelta morale è in mio potere. Dove cercherò il bene e il male? Dentro di me, in ciò che mi appartiene’. Trattandosi, invece, delle cose a te estranee, non adoperare mai le parole bene, male, utilità, danno ed altre simili”. La distinzione delle cose comporta, come si può intuire, una presa di posizione morale di fondo da parte dell'uomo con la quale egli viene a stabilire ciò che è bene e ciò che è male e quindi a determinare la base del proprio agire. Epitteto chiama questo atto prohaìresis, traducibile con quella decisione che l'uomo fa una volta per tutte e alla quale si sforza, poi, di mantenersi costantemente fedele nelle scelte particolari.

Quindi, se il bene dell'uòmo è il bene della sua anima (così come Socrate riteneva che il bene supremo è " la cura dell'anima ") la prohaìresis viene a coincidere con il corretto uso delle rappresentazioni e quindi con quello strumento che ci consente di giudicare le cose e di calcolare il valore per ciascuna di esse. Ci giunge una ricchezza o del potere? Questo ci viene rappresentato come un bene? Un corretto uso delle rappresentazioni ci porterebbe a respingerli come bene in quanto ricchezza e potere non dipendono da noi e dunque non può essere bene. Ci giunge povertà o malattia rappresentataci come un male? Anche in questo caso sta a noi dissentire o no. Il corretto uso della rappresentazione consisterà nel respingerli, riconoscendo, in funzione del principio della bipartizione, che povertà e malattia, nella misura in cui non dipendono da noi (dalla nostra scelta morale), non sono mali. Ma se bene e male dipendono solo dalla nostra scelta morale di fondo che assumiamo solo su cose che dipendono da noi, come si spiega il dolore e l'afflizione nell'uomo? Epitteto ci dice che l'errore morale è sempre involontario in quanto si basa su un non corretto uso delle rappresentazioni: “Che cosa vuol dire "ladri" e "delinquenti"? Che sono fuori strada riguardo i beni e i mali. Bisogna dunque, adirarsi con loro, o non piuttosto compiangerli? Mostra loro l'errore, e vedrai come si allontanano dalle loro colpe”; “E poi, che cosa credi? Che di proposito incorro nel male e fallisco nel bene? Per niente! Qual è, dunque, il motivo del mio errore? L'ignoranza”. L’uomo, quindi, non può mai volere il male, se lo vuole, è solo perché a lui appare in sembianza di bene. Questo spiega l'estrema fiducia di Epitteto (come Socrate) nelle possibilità dell'uomo di raggiungere il bene ed essere felice, appunto usando le rappresentazioni in armonia con la natura. Questa fiducia nell'uomo deriva soprattutto dal suo legame ontologico con Dio, essendo l'uomo concepito da Epitteto come frammento di Dio stesso e per questo l'uomo può trovare in sé stesso la sorgente del bene. Se il bene e il male sono solo all'interno della scelta morale, quindi applicabile solo alle cose che dipendono da noi, le altre cose che non dipendono dalla scelta morale sono di conseguenza indifferenti. Il corpo, gli averi, le cose esteriori in generale, di per sé non hanno spessore di beni e mali. È sempre e solo il nostro giudizio che li può trasformare, per noi, in beni o mali. Ma ciò significa appunto che, in ultima analisi, beni e mali sono solo nei nostri giudizi.

La morte? Epitteto dice far parte dell'ordine naturale delle cose e, in quanto tale, è assurdo chiamarla un male. La morte non è evitabile ma è evitabile l'errato giudizio che ce la presenta come male e, in questo modo, sono evitabili l'angoscia e l'infelicità che ci può procurare. Lo stesso si ripeterà per le malattie ma anche per quelle cose che la gente chiama beni, come la vita, la salute, la ricchezza e simili. Dice Epitteto: ”Il vivere è indifferente, ma non è indifferente l'uso di esso”. Ecco che di fronte a tutto ciò che erroneamente reputiamo mali, per esempio, come malattie, avversità, dolori, è in nostro potere esercitare la virtù attraverso la tolleranza, la magnanimità, l'indulgenza. Dice Epitteto: “Ecco cosa vuol dire trarre vantaggio dal prossimo! Il mio vicino è cattivo? Per sé stesso: per me è buono; allena la mia indulgenza e la mia assennatezza”. È la bacchetta di Ermete che tramuta tutto in oro, al punto che Epitteto dichiara: "Tocca quel che vuoi e diventerà oro" (alludendo al caduceo ermetico). “Porta qualunque cosa ed io te ne farò un bene”, dice Epitteto. Porta la malattia, la morte, la povertà, l'insulto, la condanna: tutto ciò, grazie alla bacchetta di Ermete, diventerà vantaggioso. Noi non siamo coraggiosi perché temiamo cose che in realtà non sono da temere e sono semplici spauracchi, ossia perché scambiamo gli indifferenti (morte, malattia ecc..) per mali. Non è la morte che spaventa, ma la paura della morte, ossia un'errata opinione di essa. Usando il coraggio e la cautela in modo corretto, otterremo l'imperturbabilità, l'eliminazione delle paure e la libertà. Infatti, la libertà non è una condizione sociale, ma uno stato dello spirito e consiste precisamente nel non essere nell'errore. Il vero filosofo, aggiunge Epitteto, non deve solo dire queste cose ma metterle in pratica. Non contano le belle parole o gli scritti, ma la testimonianza di una vita conforme alla saggezza. Per questa ragione il conseguimento della virtù, per Epitteto, si basa sul continuo esercizio che deve essere applicato in 3 ambiti, sfere o campi (τόποι) differenti.

Il primo ambito è quello dei desideri e delle avversioni.

Occorre esercitarsi a non essere frustrati in ciò che si desidera ed a non incorrere in ciò che si avversa. È un ambito che coinvolge l'uomo al suo interno, la sua scelta morale di fondo. Occorre accogliere con gioia e compiacimento tutto ciò che dipende dalla natura universale e non desiderare che ciò che dipende da noi, ossia per gli stoici la retta azione morale.

Il secondo ambito regola i rapporti con il prossimo, gli impulsi e le ripulse tra il soggetto e le cose esterne, in una parola, i doveri.

Il terzo ed ultimo topos, determina una regola da tenersi nell'ordine del pensiero: cautela nel dare giudizi onde non incorrere nell'errore, e la facoltà dell'assenso ovvero di poter decidere sulla natura delle cose.

Questo schema ternario viene ripreso da Epitteto in più occasioni nelle sue Diatribe e più tardi verrà ripreso anche dall'imperatore filosofo Marco Aurelio intessendo in più occasioni nei suoi “Ricordi” con questi tre rapporti fondamentali tra l'uomo e la natura circostante. Dice M. Aurelio: “In tutte le cose e costantemente dipende da te:

1.           compiacerti devotamente della presente congiunzione degli eventi;

2.           comportarti con giustizia con gli uomini presenti;

3.           applicare alla rappresentazione presente le regole del discernimento, affinché non si infiltri nulla che non sia oggettivo”.

Di questi tre ambiti, dice Epitteto, il primo è il più importante ed è la condizione necessaria per la corretta applicabilità degli esercizi degli ambiti successivi. È proprio su questo che occorre concentrare la nostra attenzione così come occorre imparare bene a camminare prima di iniziare a correre.

 

Esercizi spirituali del primo ambito.

“Una sola cosa è la strada che porta alla serenità (e questo pensiero abbilo sempre presente, all'alba, durante il giorno e la notte): bisogna districarsi dagli oggetti che non dipendono dalla scelta morale, non reputare niente come proprio, affidare ogni cosa alla divinità e alla sorte, costituire tutori di queste cose quegli stessi che Zeus ha fatto tali, curarsi solo ed unicamente di quel che è proprio e non sottoposto ad impedimenti...”.

Per raggiungere questo obiettivo dobbiamo esercitarsi in tutte quelle cose che ci aiutano a conseguire ciò che desideriamo cioè che ci aiutano a non fallire nei nostri desideri e a non cadere in ciò che avversiamo. L'esercizio deve dunque essere rivolto alla nostra scelta morale di fondo ovvero se la nostra abitudine è quella di rivolgerci alle cose che sono fuori di noi occorre esercitarsi ad ingenerare una abitudine contraria e questa, senza per questo fare cose contrarie a natura o strampalate (altrimenti, dice Epitteto, non saremo filosofi ma saltimbanchi). Quindi ci dice: “Perciò dovremo anche noi forse esercitarci a camminare sulla corda o ad abbracciare le statue? No davvero! Non tutto ciò che è difficile e pericoloso è adatto all'esercizio, ma solo ciò che ci aiuta negli sforzi per conseguire l'oggetto dei nostri propositi. E qual è questo? Vivere, senza subire impedimenti, nei desideri e nelle avversioni. E ciò cosa vuol dire? Non fallire nei propri desideri e non cadere in ciò che si avversa”.

E qui Epitteto riporta degli esempi concreti: “Sono portato ad indulgere al piacere? Mi volgerò dalla parte contraria, oltre misura, per esercitarmi. Sono incline ad evitare la fatica? Impegnerò e addestrerò in quest'ambito le mie rappresentazioni al fine di allontanare ogni cosa del genere. Chi è, infatti, l'uomo che si esercita? È colui che si preoccupa di non usare il desiderio e di usare l'avversione per i soli oggetti che dipendono dalla scelta morale, e che si cura specialmente di ciò in cui gli è difficile aver la meglio. Per questa ragione ciascuno di noi dovrebbe esaminare tutto ciò che lo induce a cadere vittima dei suoi desideri come delle avversioni e contrapporre un desiderio o una avversione uguale ma contraria come azione purificante. Lo scopo è raggiunto quando ci si pone nella condizione di poterci concedere solo quelle cose di cui se ne possa fare tranquillamente a meno. Questo esercizio conduce quindi alla temperanza, alla tranquillità d'animo (atarassia).

Epitteto consiglia di portare con sé la regola, sempre ed ovunque, di fronte ad ogni rappresentazione, di modo tale che: “.. non appena esci di casa all'alba, chiunque o qualunque cosa veda o senta, esaminala e rispondi come ad una domanda (...) E' una cosa indipendente dalla scelta morale, o dipendente? È una cosa indipendente: eliminala. Che cosa hai visto? Qualcuno in lacrime per la morte di un figlio? Porta la regola. La morte è una cosa indipendente dalla scelta morale: toglila di mezzo(...) Se facessimo così e ci esercitassimo in tal modo, ogni giorno, dall'alba alla notte, si vedrebbe qualche risultato, per gli dèi!“.

Ora qui comprendiamo la portata di questo esercizio. Se noi applicassimo costantemente tale criterio di valutazione su tutto ciò che ci accade e ci si presenta di fronte riusciremo a comprendere come in realtà la maggior parte delle volte attribuiamo impropriamente dei giudizi a cose che sono indipendenti dalla nostra “scelta morale di fondo” e quindi confondiamo l'essenza delle cose stesse con il giudizio che ne diamo. Questa accettazione porta ad una visione "fisica" degli eventi in grado di spogliare gli eventi dalle rappresentazioni emotive e antropomorfiche che proiettiamo su di essi. È riconoscibile qui il terzo campo della filosofia stoica, il campo della fisica, non da un punto di vista teorico o scientifico, ma come esercizio spirituale, vedere e sentire le cose per quelle che sono senza necessariamente sovrapporre ulteriori significati o giudizi. E' in quest'ottica che si comprende Marco Aurelio quando dice :”...le vivande cotte e altri commestibili del genere bisogna rappresentarseli quali cadavere di un pesce, di un uccello o di un porcellino; e il Falerno quale succo d'uva; e la porpora quale peli di pecora bagnati del sangue di una conchiglia; e il coito quale sfregamento di un budellino e l'emissione di un po' di muco accompagnato da uno spasimo”. Dice Epitteto: “Si trasferiscano questi giudizi agli oggetti che dipendono dalla scelta morale, e garantisco che si avrà calma e fermezza, comunque si trovino le cose che ci attorniano”.

Quindi esercitiamoci sin da ora a non farci sorprendere dalle rappresentazioni. Se vediamo qualcuno piangere e osserviamo: "E' distrutto"; se è benestante: "Beato lui"; se è povero: "Disgraziato!" o "Infelice, non ha cibo"; se un parente è malato o morto: "Sono preoccupato o ucciso dal dolore". Occorre estirpare questi giudizi viziosi: a questo dobbiamo tendere con i nostri sforzi. Lo stesso vale per ciò che riteniamo dei beni come il successo, la posizione sociale o peggio la carriera lavorativa. Epitteto ci dice dunque che l'uomo virtuoso deve occuparsi della propria anima e far uso delle rappresentazioni secondo natura. Questo principio va anteposto a tutto, perfino ai rapporti di parentela. Talvolta le rappresentazioni sembrano agitate mentre in realtà è l'anima ad esserlo per i suoi cattivi giudizi. Epitteto ci descrive questa situazione con una felice immagine: “L'anima è come un catino pieno d'acqua; e il raggio di luce che cade sopra l'acqua sono le rappresentazioni. Quando dunque l'acqua è mossa, sembra che il raggio di luce sia mosso, ma, in realtà, non lo è. Pertanto, quando la mente di uno si offusca, non sono le arti e le virtù che si confondono, bensì lo spirito nel quale si trovano. Quando questo ritorna allo stato precedente, anch'esse vi ritornano”.

 

Esercizi spirituali del secondo ambito.

Il secondo ambito concerne l'impulso e la ripulsa tra il soggetto e le cose esterne. Ci dice Epitteto: “In quest'ambito occorre essere costantemente obbedienti alla ragione, non fare niente al momento inopportuno, nel luogo inopportuno, e, insomma, contrariamente ad una convenienza siffatta”. È il vasto campo dei doveri (kathèkonta = azioni appropriate). Sono azioni (dunque qualcosa che dipende da noi) che interessano cose che non dipendono da noi (gli altri uomini, i mestieri, la politica, la salute, ecc...), quindi cose che costituiscono una materia indifferente. Per essere buone, tali azioni devono essere fatte con spirito comunitario, per amore dell'umanità, conformemente alla giustizia. Occorre dunque esercitarci a non agire senza uno scopo, ad eliminare ciò che non è indispensabile, risalire ai principi razionali dell'azione, comprendere i motivi della azione altrui, rappresentarsi che cosa si può diventare se non si controllano le proprie tendenze, agire giustamente senza occuparsi di quello che fanno gli altri.

Il rapporto con gli altri richiede anche la ricerca del proprio ruolo nell'universo attraverso la contemplazione del cosmo, la percezione del nostro proprio limite e della nostra parentela con Dio. Dice Epitteto: “Tu,..., sei un frammento di Dio; hai in te una parte di Lui. Per quale motivo, allora, misconosci la parentela? Perché non sai da dove provieni? Non vuoi rammentare quando mangi, chi sei tu che mangi, e chi nutri? Quando hai rapporti sessuali, chi sei tu che hai questi rapporti? Quando hai rapporti sociali? Quando fai esercizi fisici, quando conversi, non sai che è un dio che nutri, un dio che eserciti? Porti un dio con te, infelice, e lo ignori”. Ma se l'anima è un frammento di Dio in noi, essa è come Dio in noi ovvero ha la stessa sua natura, Con Epitteto possiamo dire che siamo portatori di un dio, un genio che è una manifestazione di un principio divino.

 

Esercizi spirituali del terzo ambito.

Il terzo ambito implica la facoltà dell'assenso.

Dice Epitteto: “Il terzo ambito concerne gli assensi, gli oggetti che persuadono e trascinano. Come infatti Socrate diceva che non si deve vivere senza sottoporre la vita ad esame, così non bisogna accettare una rappresentazione non esaminata, ma dire: "Attendi, consentimi di vedere chi sei e da dove vieni"; e come le guardie di notte dicono: ‘Mostrami i documenti di riconoscimento’, hai della natura il contrassegno che deve avere una rappresentazione per essere accolta?”. Questo tema impone come esercizio una disciplina del pensiero ed anche del modo di esprimersi. Evitare pensieri inutili e parole inutili, ordinare il pensiero in modo tale da rendere poi l'azione che ne consegue quanto più conforme a questo. Tutto ciò conduce ad un maggiore controllo di tutto in nostro essere. Questa disciplina, inoltre, porta l'uomo ad emanciparsi da tutto ciò che gli è estraneo, quindi ad una fondamentale indipendenza e libertà interiore (autarchia).

È in quest'ottica che tutte le scuole esoteriche di ogni tradizione pongono come base nei loro esercizi spirituali il raggiungimento del silenzio interiore, ovvero della completa assenza di pensieri in modo da mantenere la mente libera e silenziosa, pronta per un approfondimento successivo della pratica e soprattutto disposta ad una interpretazione oggettiva delle rappresentazioni.

 

Questi sono i tre ambiti nei quali si esercitava Epitteto. “In conclusione - dice Epitteto in un frammento - non si gareggia per un premio qualsiasi: si tratta di essere pazzi o savi”. Epitteto non si sposò mai e visse sempre poveramente. Alla fine della sua vita, ci informa Simplicio, prese con sé una donna per allevare un orfano che aveva adottato. Concludiamo la trattazione dell'esempio che ci giunge dallo stoico Epitteto con un messaggio di libertà, lo stesso messaggio che egli riprese da Diogene il cinico, il suo grande eroe: “Diogene diceva: ‘Da quando Antistene mi ha liberato, non ho più patito la schiavitù’. Come lo liberò? Ascoltate cosa dice: " Mi insegnò quel che è mio e quel che non è mio. I possedimenti non sono miei; i parenti, i servi, gli amici, la reputazione, i luoghi famigliari, la compagnia della gente, tutto ciò mi è estraneo. “Che cosa, dunque, è tuo?". L'uso delle rappresentazioni. Egli mi mostrò che quest'uso lo posseggo incoercibile e non soggetto ad impedimenti: nessuno può impacciarmi né costringermi con la violenza ad usare le rappresentazioni altrimenti che come voglio. Chi dunque può ancora dominarmi? Filippo, Alessandro, Perdicca o il Gran Re? E come avrebbero questo potere? Chi, infatti, è destinato a soggiacere ad un altro uomo deve, molto prima, soggiacere alle cose!”. Pertanto, chiunque non si lascia dominare né dal piacere, né dalla fatica, né dalla reputazione, né dalla ricchezza, ed è capace, quando gli pare di sputare tutto il suo miserabile corpo in faccia a qualcuno, e, poi, di andarsene, di chi è ancora schiavo costui, a chi è sottomesso?”.

Così fu la vita ed il pensiero di Epitteto.

Epitteto si liberò del suo corpo nel 125 d.c., lasciando un profondo contributo ed una vita esemplare ai suoi successori, contributo che servì a formare più tardi lo spirito ed il carattere di molti capi e senatori romani che costituirono la spina dorsale del colossale impero di Roma.

 

 

Luciano Silva

 

Bibliografia

Epitteto, "Diatribe - Manuale - Frammenti", Rusconi 1982

 

NOTA:

L'indice completo dei vari capitoli, ciascuno dedicato agli esercizi spirituali e alla vita dei vari filosofi, lo trovi qui (con il link diretto al capitolo pubblicato nel presente sito). Tutti i diritti sono riservati.

  1. Parte 1: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: L'oracolo di Delfi 

  2. Parte 2: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: La Filosofia antica

  3. Parte 3: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Licurgo

  4. Parte 4: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Socrate

  5. Parte 5: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Epitteto

  6. Parte 6: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Diogene "il cane

  7. Parte 7: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Epicuro

  8. Parte 8: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Proclo

  9. Parte 9: L’amore per la saggezza - Esempi di vita ed esercizi spirituali dei filosofi dell’antica Grecia: Pitagora

 

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