

La Morte come Madre e Sposa – di Luciano Silva
il matrimonio dell’Anima e il cammino dell’Eroe
27/05/2025
Una donna di circa cinquant’anni condivise, con molta reticenza e orrore, un sogno nel quale si trovava in cucina e preso un coltello uccise la madre (morta molti anni prima), facendone piccoli pezzi. Era in presenza di altre persone, era chiaro per lei che fosse sua Madre, ma in ogni modo sapeva che doveva farlo. Alla fine, mise i pezzi in un piatto e tutti iniziarono a mangiare.
La presenza della morte e delle sue rappresentazioni nello sviluppo della coscienza umana ha attraversato una serie di passaggi significativi, dal totale timore e allontanamento di tutto ciò che la potesse richiamare, al riservarle uno spazio assieme ai defunti. I primi approcci nei confronti della morte da parte di alcune tribù primitive furono del tutto evitanti. I defunti venivano abbandonati laddove si trovavano, lasciati in pasto alle belve o esposti alle intemperie, l’horror vacui che la morte scatenava nella coscienza umana veniva attenuata fuggendo via o tenendola a debita distanza. Se per le popolazioni nomadi questo era abbastanza normale, per quelle residenziali che vivevano di agricoltura anche il trovare cadaveri riversi nei campi comportava addirittura abbandonare quel terreno e relativo raccolto per allontanarsi il più velocemente possibile da quello spazio ritenuto pericoloso o contaminante. Dalla fuga di fronte alla morte e ai cadaveri si passò all’uccisione. Il mito dell’uccisione di un essere primordiale è alla base di molti miti di creazione, attraverso lo smembramento si crea il mondo e tutti gli esseri della terra. Dallo smembramento di Osiride nell’antico Egitto a quello degli indiani Witoto del Sud America del padre ancestrale Moma, creatura lunare, a causa di questa “prima morte” tutti gli umani furono destinati a morire. Analogo mitologema lo si ritrova presso gli indiani Luiseño del sud della California, nessuno era morto prima che Ouiot, il primo padre, morì. In ambito Azteco lo smembramento di Tepeu e Gucumatz creano il mondo e gli esseri viventi.
Il tema dell’uccisione lo si ritrova presso popolazioni sia di cacciatori che di agricoltori, ma mentre i cacciatori vivevano l’atto dell’uccisione con una certa ansietà, esorcizzandola ad esempio con rituali o cerimonie di accompagnamento o preghiera all’anima degli animali uccisi durante la caccia, presso gli agricoltori il sacrificio estremo era pensato benvenuto agli dei o agli spiriti al punto che l’uccisore era ritualmente decorato e onorato nell’atto di presentare la propria offerta sacrificale alla divinità o allo spirito guardiano dell’inframondo. Il seme alla fine deve morire nelle profondità della terra per poter generare nuova vita e il sangue è un veicolo di vita o serve a propiziarla. Ecco che, se i Calmucchi o i Kirghisi esponevano i defunti abbandonandoli nelle steppe o nella boscaglia, alcune tribù praticavano l’uccisione esplicita dei morenti. I Buriati uccidevano gli anziani, dopo averli ubriacati, per strangolamento mentre gli Yakuti consideravano una disgrazia che qualcuno morisse di morte naturale (credevano che, se questo fosse accaduto, uno spirito maligno poteva mangiare l’anima del deceduto) e seppellivano i genitori anziani vivi o li lasciavano morire di fame nel corso di festività o cerimonie.
Dall’evitare la morte, si iniziò a darle un volto e ad affrontarla a viso aperto, un volto prima in forma di animale, tipicamente cani lupo, serpenti e poi esseri alati come esseri che comparivano nei miti, nei sogni o nelle visioni degli sciamani per preannunciare o accompagnare alla morte, poi in forma ibrida animale-umana, poi infine in forma antropomorfa. Per citarne solo alcuni, in forma di cane o lupo troviamo in ambito azteco Xolotl, il cane rosso dei morti, Anubis in Egitto, in Mesopotamia statuette di argilla a forma di cane erano dedicate a Labartu, Shiva nell’induismo è chiamato il “Signore dei Cani”, divinità onorata nel simbolo fallico come potere procreativo ma analogamente è anche colui che ha il potere di annichilire nella morte. Ritroviamo qui una conoscenza fondamentale ripreso da tutte le culture tradizionali, non ci può essere creazione senza distruzione, vita senza morte. Nella stessa tradizione induista, Shakti-Durgha è descritta con il volto di un lupo nel Mahabharata ed è adorata come uno sciacallo. In ambito nordico, Garmr è il cane dei morti, e Nehalennia, una divinità di probabile origine celtico-germanica, è colei che divora tutte le cose viventi. Nell’antica Grecia, Cerbero è il custode degli inferi. Si ritrova qui l’analogo principio polarmente unito tra la terra che divora e al tempo stesso dona i suoi frutti, Madre Terra è sia colei che annuncia o accoglie la morte nel suo grembo e, al tempo stesso, colei che fa nascere nuova vita.
La Morte come Madre
La rappresentazione della morte in forma di una Madre che divora i suoi figli, nei miti così come nei sogni, testimonia l’evoluzione nella coscienza umana nell’includere il principio ciclico di morte e rinascita dove ora la morte può essere incontrata in forma di Madre o sperimentata in forma di matrimonio con una donna sposa (che può essere l’immagine dell’anima). Ciò su cui vogliamo soffermarci ora è la figura della Madre-Morte, la madre fagocitante, la Madre Terra che divora i suoi figli con le fauci ben aperte e i denti acuminati (da cui forse l’incubo maschile della vagina dentata, la morte struggente che viene dalla donna). Se questo tipo di sogni o di visioni si possono interpretare facilmente in chiave psicologica freudiana, ci apriamo a consapevolezze più ampie e profonde se le riportiamo a numerosi miti che nell’antichità ci hanno presentato questa figura ambivalente: la rassicurante terra sulla quale appoggiamo il nostro passo, l’abbraccio accogliente di una madre alla nostra nascita (per i più fortunati), una figura materna nutriente e sostenente, si scontra con le “fauci dell’inferno” che si possono aprire in ogni momento sotto i nostri piedi per aprirci le porte dell’inframondo. Questa polarizzazione viene vissuta, in forma di sovraccoppiamento tra la vita e la morte, in coloro che, ad esempio, hanno sofferto di qualche trauma alla nascita: nel momento in cui la madre da la vita si accompagna una minaccia di morte. Questa ambivalenza produce una serie di paure ed esperienze che possono impedire, a chi ha subito tali traumi natali o perinatali, di vivere la vita a pieno e con fiducia. In tali circostanze, si nota come il soggetto tenda a cercare se non incontrare esperienze limite tra la vita e la morte come tentativo del sistema nervoso, laddove residuano i sintomi post-traumatici, di rinegoziare quell’esperienza iniziale e poter separare quell’ombra che ha oscurato quel momento di venuta alla luce. Inevitabile conseguenza potrebbe essere una generale paura dell’uomo nei confronti della donna, specie nel momento in cui intende diventare madre.
Come risultato, la coscienza porta l’immagine della Madre Terra non solo come colei che porta la vita, la germinazione per la nascita di nuovi frutti e cibo per gli animali e gli umani, ma anche come colei che apre le fauci alla morte. I defunti sono seppelliti a Terra, il mondo dei morti è collocato in quasi tutte le geografie funerarie in regioni del sottosuolo, nel sottosuolo dunque c’è la porta per la vita ma anche la porta verso la morte, la vita che nutre e la morte divorante si fondono in una sola immagine. Terra consumptrix! Diffuse le immagini di leoni, leonesse o grifoni anche in molte chiese o cattedrali che stringono nelle loro fauci figure umane, simili rappresentazioni si sono ritrovate nella cultura peruviana di Chancai. La statua di Demetra Melena (la Nera) a Figalia, veniva venerata ancora nel secondo secolo d.C. in una grotta sacra in una forma con testa di cavalla (il cavallo è un altro animale che si ritrova diffusamente in funzione di psicopompo). La madre Demetra soffre per la figlia perduta e una gravidanza contro la sua volontà, una ulteriore connessione tra morte e vita tramite una maternità sofferta. Il fato della maternità è come il fato della morte, entrambi comportano sofferenza, essere rapiti e abbandonati ai dolori mortali. Plutarco riferisce che in Attica la morte era chiamata “Demetrioi”. Il sacrificio di sangue richiesto da Madre Terra diventa un tributo per rinnovare la Vita (analoga funzione svolta dall’offerta rituale col mestruo). In quest’ottica si comprende perché nelle Tesmoforie, le celebrazioni dedicate a Demetra nella antica Atene, si sacrificavano dei maiali gettandoli in pasto ai serpenti nella profondità della terra: le membra decomposte venivano dopo poco mescolate con dei semi pronti per una nuova semina: nel rito, la divinità diventava l’uccisore e l’ucciso, il carnefice e la vittima. Simile sacrificio di maiali avveniva in Polinesia dove, in tal caso, venivano bruciati e sparsi per i campi per propiziarne la fertilità.
La Morte come Sposa e il matrimonio con la Morte
Un altro mitologema diffuso nella coscienza collettiva, nei miti come nei sogni e nelle visioni è l’annunciarsi della morte come sposa. Già altrove1 abbiamo riportato come nei sogni il matrimonio veniva interpretato da diverse tradizioni antiche di sognatori come matrimonio dell’anima, e dunque il momento in cui l’anima si congiunge finalmente e fatalmente al sé superiore, allo spirito, al momento del trapasso. Ecco che l’immagine della morte come sposa attraversa diverse culture e pare essersi sviluppata a partire dalla morte come Madre vista prima. E’ ad esempio il caso di Ishtar e Tammuz, la leggenda di Agdistis figlio androgino di Zeus, Attis, Venere e Adone e molti altri. Quando Attis sta per sposare la figlia del re Mida, sua madre Agdistis la cacciatrice lo persegue senza sosta fino a quando si amputa il pene. Morente, getta il fallo ai piedi della madre amata gridando “Per te, Agdistis”. In questa leggenda ritroviamo la figura della Madre Morte e anche Sposa nello stesso tempo portata all’estremo. Da questa leggenda possiamo apprendere anche l’effetto della rinuncia o sottomissione del potere maschile che una madre può indurre verso un figlio attraendolo a fianco a sé al posto del padre, disordine sistemico che osserviamo spesso anche nella conduzione delle Costellazioni Familiari Sciamaniche nel caso dei “cocchi di mamma”, analogamente potrebbe accadere l’opposto per le “cocche di papà”, con inevitabili conseguenze disfunzionali che possono protrarsi nel rapporto con l’altro sesso (ma anche con individui dello stesso genere) e nelle relazioni attuali.
Anche la babilonese Ishtar sta sul bordo tra la Madre Morte e la Sposa Morte, come raccontato nell’epopea dell’eroe Gilgamesh. Nel suo tentativo di sedurlo, Gilgamesh al rifiuta dicendole “Hai portato alla morte tutti coloro che hai catturato nella rete del tuo amore!”. Al tempo stesso è divinità della vita, della fertilità e dell’amore, ma quando Gilgamesh la respinge minaccia gli dèi e gli uomini dicendo “Da sola sfonderò le porte degli inferi! Farò risorgere i morti affinché divorino i vivi, i vivi se ne andranno e solo i morti rimarranno”. Queste sono parole di una Madre Morte che non da scampo agli uomini così come le parole di una seduttrice che vuole solo intrappolare le anime.
In ambito teutonico, Freya ha un simile ruolo duale così come Hel (similmente a Proserpina), la dea dei morti, è anche la Morte Sposa. I greci dicevano che la morte si arrampicava sul letto nuziale (thalamos) di Persefone, anch’essa divinità bipolare dei morti ma anche della fioritura e rinascita primaverile. Questo connubio tra matrimonio e morte rivela il significato di alcune tradizioni vive ancor oggi in alcuni paesi europei di vestire i bambini o fanciulli (e fanciulle) defunti con vestiti matrimoniali, mettere ghirlande attorno ai capelli o addirittura la fede nuziale. Il funerale assume l’aspetto quasi di una celebrazione matrimoniale con la morte. Il matrimonio può essere simbolo di una morte iniziatica per le ragazze, da nubili lasciano la casa dei genitori per accasarsi con lo sposo, “uccidono o mangiano la madre”, ovvero abbandonano il ruolo di figlie incorporando la maternità, per diventare spose e potenzialmente madri a loro volta. Come nel sogno citato a cappello del presente articolo, il mangiare la madre implica la fine della donna come figlia (ruolo al quale la sognatrice era rimasta legata forse per molto tempo) per incorporare la madre come “cibo” per poter compiere la propria trasformazione e diventare madre essa stessa.
Il matrimonio può diventare simbolo di morte e la morte può essere un simbolo di una trasformazione decisiva nella vita che può avere luogo in questo congiungimento, specialmente per le donne. La forma più esplicita di questo simbolismo lo si trova nel mito del rapimento e matrimonio di Kore-Persephone. La fanciulla viene rapita e derubata della sua verginità ma dopo che riceve il seme (del melograno) dall’uomo, si trasforma: la Kore (fanciulla) “muore” e al suo posto nasce Despina, la madre nasce dalla figlia vergine. Ciò che viene simbolicamente espresso dal morire non è la fine della vita ma un processo di trasformazione in cui entrambe le fasi giocano un ruolo essenziale nel ciclo della vita. Le giovani donne e i giovani uomini vengono guidati dal Fato e dalla loro propria natura a consumare, diremmo, a consumarsi nel matrimonio (come morte) in quanto il matrimonio pone fine alla loro infanzia e li trasforma in un altro stato di vita. Il divenire e la trasformazione sono processi imposti dal fato agli esseri umani e questo risulta ancor più evidente quando viviamo momenti di passaggio o di crisi esistenziali. La trascendenza comporta estasi così come ansietà, dato che anche l’estasi è un morire del proprio “io” quando esce fuori dai suoi stretti confini per accedere ad altro da sé, e allo stesso tempo l’irrompere di una nuova luce oltre la quale tutto ciò che esisteva prima svanisce tra le ombre. Solo chi vive la trascendenza, o si è concesso di uscire da quegli stretti confini, può comprendere il significato del demone sposo che fatalmente rapisce o della morte-sposa seducente che ti accompagna verso lo spirito o il demone della Morte.
In Euripide le Kere erano chiamate “Le spose della Morte” e le Sirene, servitrici e messaggere di Persefone, erano chiaramente connesse con l’aspetto seduttivo del demone della Morte, come Calypso lo fu per Ulisse. In ambito nordico, ritroviamo le Valkyrie, le fanciulle di Odino, come spose della morte che accompagnano i guerrieri nel Valhalla, dove avviene la fusione dell’immagine della Morte con gli antenati Ancestrali, sebbene gli aspetti seduttivi non siano così chiari. Nonostante il fascino magico di queste figure che rapiscono e portano verso la morte lo sfortunato avventore, l’eroe può resistere alla tentazione come Ulisse rifiutò la schiavitù di Calypso e Gilgamesh resistette alle lusinghe di Ishtar.
Il Viaggio dell’Eroe
Secondo i miti e le leggende, è all’uomo più abbondante di vita e potere che l’aspetto nuziale della Morte viene rivelato, e prende forma nel fluire dell’uomo nell’ebbrezza della battaglia o nell’abbondanza di un amore realizzato. Quando l’io bambino comincia a cercare l’indipendenza dal regno materno protettivo ma anche omnicomprensivo, si scatena un conflitto interiore molto profondo dove l’eroe deve “uccidere la madre” (il drago), ovvero il legame onnipresente con lei, per poter affrontare il proprio destino. Qui esce, anzi, diventa necessaria, la parte aggressiva, l’eroe rompe con il piano ordinario per entrare nel mito e nel sogno. E come ci spiega magnificamente Campbell nel suo “L’eroe dai mille volti”, “il mondo oggettivo rimane qual è, ma per il soggettivo spostarsi dell’interesse appare trasformato”2. Lo scopo non è quello di cambiare il mondo, ma noi stessi, dopo di che il mondo sarà rinnovato. Se la fase di crescita dell’eroe si ferma alla lotta contro la madre credendo che sono la forza, la propria astuzia o potere a vincere i nemici, senza vedere che il nemico è sé stesso, la fiducia egocentrica nelle “proprie doti”, che in realtà sono di origine divina, paralizza il cammino dell’eroe nella sua ingenuità adolescenziale. L’io infantile sta ancora lottando con la madre invece di tornare a lei riconciliato per essere iniziato, ma questo comporta una resa o una sconfitta. Gilgamesh possiede doti sovraumane ma gli mancano l’umiltà (da humus, terra) e l’autocontrollo, necessari per equilibrare la propria potenza, e da qui la necessità che provi la sconfitta e il limite che gli vengono forniti dagli dèi sottoforma di un sosia curioso, Enkidu, una sorta di signore degli animali sciamanico, come se la sua arroganza dovesse essere ridimensionata e neutralizzata dall’incontro con la sua natura selvaggia3. Uno dei viaggi sciamanici più interessanti da compiere è l’incontro con la propria natura selvaggia. Già l’incontro e la fusione con il proprio animale di potere può fornirne una anticipazione.
In una versione femminile del mito dell’eroe, nel suo viaggio infero Inanna4 (come Gilgamesh per Enkidu, entrambi nell'immagine soprastante) piange il suo consorte Dumuzi che è morto e vuole andare a liberarlo riportandolo in vita dal mondo dei morti, ma deve affrontare la terribile sorella Ereskigal, la Regina degli Inferi, che trattiene l’anima di Dumuzi. Per far questo, deve attraversare sette porte tremende, ciascun guardiano della soglia le chiede per lasciarla passare di sacrificare un simbolo dei suoi poteri: la corona, le collane, il pettorale, l’anello d’oro, la verga di lapislazzulo e infine la veste. La dea è nuda di fronte alla Morte e viene trasformata in un cadavere e appesa al muro con un gancio. Come Odino, Adone, Osiride o Cristo, la dea ha avuto l’esperienza della morte e ha trionfato su di essa, è stata “appesa” a simboleggiare il suo ruolo di redenzione, perché l’amore sconfigge la morte. Nel mito di Inanna, analogamente a Persefone, si ripresenta il tema del sacrificio necessario rappresentato dall’incontro con la morte, con la discesa agli inferi (nelle stagioni autunno-inverno), per rinascere (in primavera-estate) e garantire la fertilità della terra, una raffigurazione del ciclo della vegetazione. Ancora una volta, non ci può essere vita senza la morte, se non diamo un posto alla morte non potremo vivere la vita pienamente. Nell’esperienza sciamanica dello smembramento si ritrova il viaggio dell’eroe che discende agli inferi, viene smembrato e poi ricostruito nuovamente. Lo sciamano deve incontrare la morte perché è il centro di tutto il processo di trasformazione. A volte è l’animale di potere che lo divora, lo riduce in poltiglia oppure si trova gettato nel fuoco o inghiottito da una gigantesca balena. L’unica regola possibile sembra essere la sottomissione, e questo presuppone una grande fiducia nell’esperienza e nei propri spiriti. Ma quando si ritorna, sembra di vedere il mondo in modo nuovo, cessa il bisogno di esprimere continuamente e ingenuamente il proprio eroismo, si partecipa del mistero vivente dell’universo senza il bisogno impellente di ricrearlo o perfino di dovervi partecipare. Abbandonato l’impulso di ricercare l’infanzia perduta, si vive solo un senso di partecipazione a un universo sacro. Come disse Blake, “Se le porte della percezione venissero pulite, l’uomo vedrebbe tutto com’è in realtà, infinito”5.
Note
- Vedi articolo pubblicato nel presente sito di Luciano Silva, “La Morte nei Sogni - I temi ricorrenti nei sogni di pre-morte, il viaggio dell’anima nell’aldilà, morti iniziatiche, la multidimensionalità dell'anima”.
- Joseph Campbell, “L’eroe dai mille volti”, Lindau, 2016
- “Gilgamesh” Edizione a cura di Andrew George, Adelphi, 2021
- Betty de Shong Meador, “Inanna, signora dal cuore immenso”, Venexia, 2009
- William Blake, “Il matrimonio del cielo e dell’inferno”, SE, 2013
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