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Articoli e interviste su sciamanesimo e tensegrità Articoli e interviste su sciamanesimo e tensegrità

Fellini degli spiriti

La dimensione onirica, sovrannaturale e paranormale sono parte dei suoi film. Perché la magia è entrata spesso nella sua vita. Come quando andò in Messico per incontrare Carlos Castaneda. E lo stregone gli insegnò a massaggiarsi l’aura. E a usare la ginestra come Lsd.

24/08/2009

Articolo di Claudio Lazzaro pubblicato su Europeo n.27 – 21 Luglio 1988.

 

Fellini ha già 68 anni, eppure quando racconta con quel suo procedere da visionario illuminato attraverso ricordi, sogni, profezie, si affaccia in continuazione dietro di lui, dentro di lui, un bambino. Che ogni tanto gli fa sgranare gli occhi o dà alla sua voce inflessioni curiose, mentre Fellini, prima di iniziare il suo prossimo film, che probabilmente riguarderà le magie di Venezia, risponde alle domande sulle cento cose con cui si va distraendo. Fellini che gioca a fare il recensore e presenta al Premio Strega il libro dell’amico Brunello Vandano, Donna con cerchio e spada. Fellini che pubblica Block notes di un regista, in cui riappare il suo soggetto Viaggio a Tulum, scritto di ritorno da un’incredibile esperienza in Messico, alla ricerca del leggendario antropologo stregone Carlos Castaneda. Fellini eroe di fumetti, ringiovanito dalla matita di Milo Manara, che sta disegnando appunto le tavole di un “album” che illustra il misterioso reportage messicano. Fellini nella casa silenziosa di via Margutta, che si sottopone paziente alla conversazione col giornalista molesto.

“Francamente non mi riconosco nelle qualità di critico letterario” inizia, timidamente quasi, per giustificarsi. “Ho letto il dattiloscritto della Donna con cerchio e spada tanti anni fa, più di dieci, mi pare. Volevo farne un film. Ma il progetto non ebbe seguito, come tanti altri. Adesso il libro è stato pubblicato e mi hanno chiesto di accompagnarlo allo Strega. L’ho fatto volentieri, perché il libro mi era piaciuto molto. Gli riconoscevo il pregio di voler raccontare una storia senza far “letteratura”, riuscendo però a mantenere intatto l’incantesimo della fiaba. Ed era affascinante, nel racconto, quel rapporto con la donna salvifica, che però ti inghiotte”.

La donna salvifica di cui parla Fellini, la maga del romanzo di Vandano, è una specie di proiezione del protagonista maschile che si materializza e diventa una donna reale. Una creatura che dovrebbe salvarlo da una fine imminente, annunciata, e che lo accompagna, tenendolo per mano, verso la morte.


Perché le era piaciuto questo racconto?

“La magia, i poteri paranormali, le atmosfere soprannaturali mi hanno sempre attratto”.


Fino al punto di farle affrontare un viaggio in California e in Messico alla ricerca del romanziere guru Carlos Castaneda...

“Sì, e la storia di quel viaggio è ancora più incredibile di come appare nel mio soggetto”.


Vuol provare a raccontarla?

“Era una mia vecchia idea: fare un film tratto dai racconti di Castaneda, A scuola dallo stregone, Viaggio a Ixtlan, Una realtà separata. Nel giro degli anni avevo tentato di mettermi in contatto con questo autore: impresa totalmente impossibile, che rendeva però più affascinante sia la ricerca sia l’ipotesi di fare un film tratto dai suoi libri. Sembrava che il personaggio non esistesse veramente. Amici americani che avevo messo sulle sue tracce e anche il suo stesso agente letterario, un certo Ned Brown, e uno dei direttori editoriale della Simon e Shuster, la casa che ha pubblicato tutto il ciclo di Castaneda, davano su di lui notizie così contrastanti che rendevano il personaggio ancora più misterioso e affascinante di quelli dei suoi libri. Questo editore sosteneva di non averlo mai incontrato, di non averlo neppure mai visto. Nell’unica sua fotografia esistente, l’asterisco segnava contemporaneamente tre teste diverse. Bisognava rispondere come in un quiz: quale di queste appartiene a Castaneda? Il suo agente mi raccontava che una volta all’anno un indio, sempre diverso, veniva a consegnargli un dattiloscritto. Ned Brown sapeva che doveva portarlo all’editore, l’editore sapeva che doveva stamparlo e gli utili, i diritti, dovevano essere inviati a una certa banca messicana. Uno dei miei incaricati mi aveva detto di averlo rintracciato, ma gli avevano riferito che Castaneda era da tempo rinchiuso in un istituto psichiatrico perché l’uso delle droghe lo aveva fatto uscire di senno”.


Però lei in “Viaggio a Tulum“ racconta di averlo incontrato.

“Sì, poi l’ho trovato, ma dopo quindici anni che lo cercavo. E fu una grande sorpresa”.


Nel suo soggetto cinematografico, subito dopo il vostro incontro a Los Angeles, Castaneda rimane sconvolto da qualcosa di indecifrabile e scompare lasciandole continuare il viaggio in compagnia di personaggi sinistri incontrati per caso, oppure di donne inspiegabilmente generose e plagianti. Il sospetto, se si scorre il suo racconto con la mente razionale di un’indagine alla Sherlock Holmes, è che tutta la storia sia una truffa montata da Castaneda per alimentare il proprio mito a spese di Fellini. Perché lui sapeva del suo arrivo e quindi poteva predisporre tutte le trappole in cui lei sarebbe poi caduto.

Sì, è vero, le ho pensate tutte. Io ho avuto una vita abbastanza tranquilla, controllabile per lo meno sul piano della razionalità e quindi non posso raccontare episodi misteriosi, tranne quello della nascita: una premessa che rende tutto quanto misteriosissimo. Ma di quest’avventura, al di là si tutti i compiacimenti narrativi, letterari, da cineasta, non riesco a dare un’interpretazione convincente. Neppure quella che lei suggeriva, di tipo strettamente poliziesco, anche se questo sarebbe l’unico metodo d’indagine per districarsi nell’arruffio e nell’indecifrabilità della vicenda. Io non posso certo vantarmi di avere una mente analitica, però ho tentato, se non altro per simpatia verso i gialli, gli enigmi, le avventure senza soluzione, ho tentato di esaminare la faccenda non con l’entusiasmo di chi si è sentito coinvolto in un’esperienza mistica, ma dal punto di vista di chi vuole uscire dall’abbaglio e anche dal compiacimento di averla veramente vissuta, cercando di capire cosa è successo. E credo di essere arrivato a una conclusione che non è affatto chiarificatrice ma, per lo meno può essere proposta a un ascoltatore , senza essere preso per pazzo o per bugiardo”.


E cioè?

“La notizia che volevo fare un film dai racconti di Castaneda deve aver allarmato, turbato, indispettito, messo comunque in guardia, un gruppo di persone, diciamo una setta, usando questo termine non in senso peggiorativo. Una setta come ce ne sono sempre state nella storia dell’umanità, i Templari, i Rosacroce, oggi questi di Rajneesh e quelle che fioriscono in America. Castaneda deve aver fatto parte di un gruppo che, per quanto riguarda la mia esperienza, è molto bene organizzato, in tutti i sensi. Non è soltanto protetto da un’ideologia comune e nella quale i membri credono fanaticamente, ma il gruppo si avvale anche di una strutture funzionante e diffusa con informatori in tutte le parti del mondo. E io mi sono convinto che Castaneda, in qualche modo, dipendesse da loro”.


O forse ne era il capo... Comunque l’ho trascinata a raccontare di Castaneda perché tra il suo “Viaggio a Tulum” e il libro Vandano ci sono delle analogie. Sono due esplorazioni del mondo della magia e hanno in comune delle figure femminili inspiegabili. Nel suo percorso in Messico lei incontra donne che si offrono generosamente, con una certa allegra follia. C’è questa proiezione del sogno maschile, questa femminilità dispensatrice, che è difficile riconoscere nelle donne vere, che si incontrano nella vita.

“Ma queste figure femminili appartengono al sogno, così come ogni altra operazione di creatività. Per chiunque si illuda, pretende o creda di dover giustificare la propria via raccontando storie, la realtà ha il colore del sogno”.


Andrea Zanotto scrisse, a proposito del suo cinema, che era “uno scontro perpetuo tra uomo e donna sovrastato da una rissa tra amore e morte”, e così si potrebbe definire anche la storia raccontata da Brunello Vandano. Lei si riconosce in questa definizione?

“Io diffido delle definizioni. Tendo a fuggire ogni volta che mi sento immobilizzato in un atteggiamento, in una teoria o ideologia, che trovo sempre limitativa, imprigionante. Credo che la forza, lo spirito di un creatore, non stia tanto nel sapere cosa sta facendo, ma nel farlo e basta. Poi potrà essere più o meno compiaciuto dalla definizione che del suo lavoro viene data, soprattutto se come in questo caso a formularla è un grande poeta che ammiro e di cui sono amico. Mi pare che il fare e il definire siano due attività completamente diverse, che non dovrebbero mai tenersi al corrente fra di loro. Io invidio molto quei colleghi che hanno questa duplice capacità di farsi travolgere da qualcosa che nasce dentro (che è la somma o la schizofrenica separazione tra vita, sogno, ricordo) e che poi, nello stesso tempo, hanno il loro laboratorio razionale, che mette giù un’analisi dettagliata, culturale dell’opera, del sogno che hanno fatto”.


Come se ci fosse, nella loro mente, un ufficio stampa?

“Ecco, infatti ho visto ce di solito questa seconda parte della loro attività intellettuale, questa capacità razionale, concorda nel trovarsi completamente d’accordo con ciò che ha creato l’altra parte. Insomma offre all’autore un consenso illimitato”.


Però, a furia di ritrovarsi definito dagli altri, avrà forse cercato di identificare, nel tempo, qualcuno dei punti centrali della sua ispirazione. Per esempio, le donne. Anni fa lei ha detto: “Delle donne so soltanto che mi piacciono”.

“Beh, mi pare già tanto”.


Ha imparato qualcosa di nuovo nel frattempo?

“Mah, fortunatamente sono sempre su quelle posizioni. Mi piacciono non soltanto per un’attrazione di carattere naturale, per una legge cosmica, ma perché mi sembrano lo stimolo più fecondo, il fertilizzante più ricco per suscitare fantasie che le riguardano. Non sono tanto forte in citazioni, che mi guardo sempre dal fare, ma, se mi è concesso farne una, mi pare che Jung abbia detto una cosa che può valere per sempre. Ha detto che l’uomo non può parlare della donna, in quanto la donna si colloca proprio là dove l’uomo vede la parte più oscura di se stesso. Così l’uomo è stimolato a un’indagine, a una ricerca. Ed è giusto che la faccia, in quanto è proprio questa creatura, che si colloca nella sua parte inconscia, a stimolarlo verso il viaggio: alla fine del quale, se è un vero eroe, come nei miti e nelle fiabe, troverà il tesoro e quindi anche la grande unione. Voglio dire che l’uomo è perennemente tentato di parlare della donna, ma è impedito in partenza, gli è proprio impossibile, in quanto la donna rappresenta l’altra parte di sé, quella che lui non conosce”.


Vuol dire che l’uomo può solo cercare di capire la propria femminilità, di indagare sulla donna in se stesso?

“Sì. La parte che non conosce… comunque si voglia definire: l’aspetto scuro, buio, complementare, l’altra parte divisa… Ma per concludere il discorsetto su Castaneda, alla fine devo tornare a questa modesta interpretazione. Credo che Castaneda abbia fatto parte di un gruppo mistico e che probabilmente sia caduto in disgrazia proprio per i libri che ha pubblicato. Come in tutte le chiese, specialmente in quelle occulte, ci sono verità che non vanno rivelate, tradite: c’è l’obbligo del silenzio. Hanno tollerato i suoi libri ma quando sono stati informati che da quei libri si stava sviluppando un’operazione che avrebbe ulteriormente divulgato i loro misteri, allora credo che siano intervenuti a spaventare Castaneda.

 

Quindi non era lui a tirare le fila?

“Era in preda al terrore ed è scomparso. Tutti i miei tentativi di rintracciarlo da allora non hanno avuto esito. Eppure a Los Angeles, dove ci eravamo dati appuntamento per fare insieme il viaggio in Messico, lui pareva entusiasta. Mi aveva ripetuto che il tempo era propizio. E infatti era lui che aveva cercato me, dopo quindici anni che lo inseguivo invano. Mi aveva detto che sapeva tutto di me, fin da quando mi ero messo sulle sue tracce, ma che prima non si era reso reperibile perché riteneva che i tempi non fossero maturi per affidare a un film la sua storia”.


Quando lo ha incontrato la prima volta?

“Ho ricevuto la telefonata di una signora misteriosa, che mi ha detto: “senta, lei che ha cercato Castaneda da tanto tempo e in tanti luoghi. Adesso lui è qui a Roma”. Sono andato all’Hotel d’Inghilterra: nella hall, all’ora dell’appuntamento, è arrivato un uomo piccolo, tarchiato, bruno di pelle: un siciliano, un sicilianotto con la dentatura bianca scintillante, i modi molto affabili, cordiali, festosi. Un giovialone: niente di romantico che potesse far pensare a qualcosa di stregonesco. Il sorriso del messicano, che somiglia a quello dei calabresi, dei napoletani, i capelli ondulati e lucenti, sopracciglioni nerissimi, l’occhio un po’ esoftalmico, ma bonario, curioso. Uno di quelli che toccano, con quella festosità tattile, quel modo di rassicurarsi che sei lì e che loro sono lì con te. “My dear friend. Amigo!”. Ci siamo abbracciati. C’era dell’altra gente in quella salettina dell’hotel. E naturalmente l’ho invitato a Cinecittà, il giorno dopo: era molto curioso come un qualunque visitatore che non sia mai stato sul set. Quando ha incontrato Mastroianni è rimasto incantato come un fan. Siamo andati poi a colazione in campagna, a grotta ferrata; passando c’erano dei prati pieni di ginestre e lui mi ha detto: “Ecco, guarda questi fiori: se ne fai un impacco, lo avvoltoli in un lino e lo metti sul plesso solare, un po’ tiepido, è più potente dell’acido lisergico. L’infuso di ginestra ha lo stesso potere dell’Lsd, per il tempo dell’applicazione, ma senza le sue conseguenze dannose”


E lei ha provato?

“No. Non l’ho provato. Naturalmente bombardavo Castaneda di domande. Lui mi ha anche fatto la visita: mi ha detto cose che altri paragnostici, sensitivi, dicono o credono di dire. Ha trovato bene la mia aura e ha detto che era molto intonata con la sua. Poi ha cercato insistentemente di insegnarmi una tecnica, che però, malgrado la mia buona volontà...”.


Quale tecnica?

“Si tratta di fare dei massaggi agli organi interni, agendo però alla giusta distanza dal corpo”.


Massaggi all’aura?

“Lui sostiene che saremmo racchiusi dentro la superficie invisibile di un uovo, dal quale sporgiamo con la testa e con le gambe. Così tutti i nostri organi esisterebbero sia dentro il soma fisico, sia fuori di esso, riproposti come da un pantografo, entro la circonferenza dell’uovo che li racchiude, come uno scafandro, nella loro equivalenza astrale. Quindi, conoscendo certe tecniche e disponendo di una certa naturale predisposizione (che lui sostiene avremmo tutti, però atrofizzata da secoli di incredulità) si potrebbe intervenire terapeuticamente su qualsiasi disturbo riguardante gli organi interni. Ma bisogna disporre, diceva, anche di una certa fiducia. Faceva una netta distinzione, che mi pare giusta, tra fede e fiducia. Fede, diceva, è qualcosa che ti porta verso l’ubriacatura, la fiducia invece è un sentimento profondamente religioso, che accomuna tutti gli uomini. La fiducia assomiglia più all’abbandono degli orientali, che al fanatismo della fede. Insisteva che, se avessi avuto pazienza, con quelle tecniche che lui si era industriato a insegnarmi, sarei riuscito a sentire il fegato toccato, massaggiato, per questa rifrazione tra organi speculari.

Insomma, alla fine ha ripetuto che i tempi erano propizi e quindi io l’ho presentato al mio produttore, Alberto Grimaldi. Pensavo di rimandare il viaggio perché stavo per iniziare Ginger e Fred, però Castaneda mi disse che no, forse un primo viaggio potevo farlo subito e così, a partire dal nostro appuntamento a Los Angeles, sono accaduti gli avvenimenti che in parte ho raccontato in Viaggio a Tulum.


Che cosa non ha raccontato?

“Cose troppo incredibili. Malgrado tutto io sono condizionato da una mia visione di cineasta, che mi obbliga a dare un senso, una costruzione al racconto. Ma quello che mi è accaduto… Quando il mio soggetto fu pubblicato dal Corriere della Sera, a puntate, ho ricevuto un’ultima telefonata: una voce, in inglese, mi accusava di aver tradito. Perché loro volevano che io facessi il film senza Castaneda (subito fatto sparire) e sotto il loro esclusivo controllo. Io dicevo: ma che film devo fare? Tutt’al più posso raccontare quello che mi è successo. “Raccontalo”, rispondevano. Io tergiversavo, dicevo di avere delle difficoltà che riguardavano il mio rapporto con la professione. Io sono anche un ingegnere, un capomastro, un falegname: non posso fare una sedia con tre gambe. “Lei sieda, vedrà che non cade. La quarta gamba apparirà a suo tempo”. Però alla fine io il film non l’ho fatto, pur riconoscendo che la storia è bellissima, per forma di onestà professionale, cioè per l’obbligo che ha ogni autore, anche uno che racconta fiabe, di essere in condizione di rispondere alle domande dello spettatore, fosse anche il meglio intenzionato. Se uno del pubblico si fosse alzato a chiedermi: Ma che sono ‘ste voci? Io che cosa avrei risposto? Cosa dico? Le udrete! Prima o poi le udremo tutti! Né posso fare un film con la pretesa di lanciare un qualche messaggio mistico indecifrabile, anche se, dopo quello che è accaduto, sono portato a pensare che in questo gruppo ci siano dei veri iniziati, che hanno sviluppato dei poteri e che hanno, ne sono quasi certo, la capacità di leggere nel pensiero. Ma come ricondurre tutto questo entro una sceneggiatura? Specialmente raccontando una storia che, accaduta o non accaduta, credibile o meno, rientra sempre nel genere delle storie a suspense, delle storie gialle. Tanto più l’enigma è indecifrabile tanto più c’è l’obbligo di suggerire una spiegazione. E io purtroppo non ero, non sono in grado”.


Un altro grande genio delirante, Edgar Allan Poe, diceva che quanto più l’assunto, il senso di una storia è pazzesco, tanto più bisogna saperla raccontare in modo che i dettagli risultino credibili e convincenti.

“Ha fatto l’esempio giusto e la ringrazio per “l’altro grande genio”. È proprio così”.


A proposito di genio e follia, vedo che sta leggendo un saggio su “genialità e perversione”. Gli intervistatori spesso le chiedono se sia mai riuscito a dare un nome al suo bisogno di far cinema. Lei risponde sempre: no, non lo so...

“Che risposta posso dare, che non sia sempre la solita? Faccio questo perché non mi sembra si sapere fare altro. Mi sembra che sia l’alibi, tutto sommato, più stimolante, più divertente, più congeniale della mia vita. Tutto quanto si è disposto abbastanza presto e abbastanza favorevolmente perché io scegliessi questo tipo di attività”.


Che però le costa caro. A volte lei somatizza il film, lo fa diventare una malattia.

“Ma io credo che l’espressione creativa definita artistica abbia qualcosa a che fare con la patologia infettiva, penso che è una malattia,qualcosa da cui uno è contagiato, un’invasione da cui devi liberarti”.


Quella malattia con un nome stranissimo, quando era finito in ospedale e non riuscivano a curarla, le venne per colpa del “Mastorna”?

“Arrivò da Rimini il mio compagno di classe, il professor Sega. “Reazione Sanarelli-Schwarzman”, disse. Sembrava uno di quei doppi nomi che facevano tanto ridere sul Bertoldo (li inventava Mosca). E così sono guarito”.


Fu così che lei si liberò da quel film che non riusciva a fare?

“Forse fu solo un “alto là”. Perché Mastorna è ancora lì, una di quelle imprese sempre sul punto di partire, ma che rinnova ogni volta l’impossibilità di realizzarsi. Non so più neanche se è un film o una specie di battellino pilota, che ogni volta mi guida fuori dal porto a far un altro film. Riappare puntualmente: alla fine di un film favoleggio ennesimamente di farlo, mi sembra sempre attualissimo. Ma forse la sua attualità consiste proprio in questo, nel trainare, nel dar leggerezza agli altri progetti. Invece del Mastorna ho poi fatto Toby Dammit, Satyricon, Casanova, La città delle donne, E la nave va, sempre con la benedizione, il saluto alla partenza di Mastorna, che sembrava aspettarmi al ritorno per potersi proporre e ripetere lo stesso rituale...”.


Invidio molto nei suoi film, e anche nelle cose che scrive, la sua capacità di evocare nei minimi particolari gli incontri, i personaggi dell’infanzia.

“Ma io non la chiamerei memoria, perché francamente io invento. Io non ricordo niente., So che può essere deludente, ma non ho affatto memoria e andando avanti negli anni quella poca che ho peggiora. Mi sento definire il “regista della memoria”, in effetti io già mi ricordo a fatica le cose che invento. Tante volte sono stato invitato a scrivere un’autobiografia. Qualche volta ho pensato: se accettassi come farei a uscire fuori da questo mio meccanismo, io che mi sono sempre inventato tutto? Mi chiedo: Quand’è che ho avuto la prima coscienza di me stesso al mondo? Non lo so. Vedo dei fermenti impalpabili che poi si dissolvono nello stesso momento in cui tento di metterli a fuoco con più precisione. Quindi francamente non so nemmeno da dove posso cominciare a sentirmi garantito dai ricordi. E credo che la memoria non sia il ricordo. La memoria crea, con i ricordi veri, distanze continuamente diverse, molto elastiche. Mi pare che la memoria sia qualcosa che si colloca tra nostalgia e presentimento: la memoria anche di cose che vorresti fossero accadute, che forse accadranno.

Quando Kezich mi ha avvertito, il Natale di due anni fa, che aveva scritto l’ultima pagina di una mia biografia, di cui non mi aveva mai detto niente, ho avuto una reazione che poi lui ha riportato all’inizio del libro: “Ma tu vuoi fare la biografia di uno che non ha nemmeno bene la sensazione di essere esistito!”, Gli ho detto, “uno che è sempre stato latitante, che tutte le volte che succedeva qualcosa non c’era! Io non c’ero mai!”. Lui mi ha risposto: “Ma è tanto che vado in giro a chiedere di te”. Insomma era andato a raccogliere un sacco di testimonianze, di gente che poi tende sempre ad un protagonismo personale. E così, vissuto attraverso il ricordo degli altri io mi ritrovo ancora più improbabile”.


Lei però ha una sua memoria pratica e tangibile: quel suo archivio di fotografie, di facce che cataloga e su cui è stato perfino realizzato un libro. Lei ha detto che, a dimostrazione di come la vita non sbagli, ognuno ha la faccia che gli compete.

“Si, ogni tanto mi capita di dire delle cose... Per un cineasta le facce sono i sostantivi, sono i suoi avverbi, gli aggettivi: servono a costruire una frase, una sequenza. Nella scelta metto una particolare cura perché mi sembra che ci sia un’operazione, tra esorcismo e magia, per tentare di cominciare a vedere il film. Questo rituale di vedere le facce non serve soltanto illudermi che il film sia cominciato, a darmi degli orari (alle 9.00 devo andare in ufficio a Cinecittà, ho gli appuntamenti, faccio un gran lavorio burocratico impiegatizio estremamente puntuale, con segretarie). Non è solo per mettere a posto la mia coscienza personale, per rassicurarmi sul fatto che sto lavorando. La ragione vera è che io proietto su questi volti che ho fatto cercare una prima versione ancora informe del film che farò”.


È vero che raccoglie le foto dentro grossi bustoni? E come le cataloga? Per esempio le donne?

“Lì c’è la prevalenza di definizioni che rivelano una specie di adolescenziale visione del femminile. C’è la busta ‘formose’”.


Lei ha fatto lavorare perfino Chesty Morgan, detta Susy tetta lunga.

“La supertettona! Ma lei la conosceva?”.


No, ma ricordo la foto.

“Aveva un’ipermastite. E un viso interessante ma da prèfica, funebre, con le guance risucchiate, una fronte marmorea, l’occhio infossato, spettrale. Un volto sereno, anche un po’ ottuso come si vedono su certi busti di legno o in marmo. Un viso pieno di ombre che contrastava poi con questa gloria da mongolfiera…. Ha fatto una particina nel Casanova”.


Altre catalogazioni?

“Ci sono definizioni da archivio di polizia, altre raccolgono tipi psicologici un po’ generici, come “intellettuali”. Ci sono poi delle etichette un po’ più esoteriche, tipo “volti ammonitori”, oppure “minacciosi”, “sorridenti”, “paciocche”, poi “belle”, “bellissime”, “belle spettrali”....”scassacazzo” .


Vorrei farle una domanda strana. Se lei, come in una replica del “William Wilson” di Poe, vedesse arrivare su questa scrivania piena di bustoni una fotografia di se stesso, dove la metterebbe? Se è vero che ognuno ha la faccia che si merita, lei in quale plico, in quale categoria si archivierebbe?

“Ma, non so se riuscirei ad essere abbastanza obiettivo da scavalcare quel tanto di ripulsa e di compiacimento con cui in generale siamo disposti a considerarci, secondo la stato d’animo. In generale, così come mi appaio nelle fotografie, non mi riconosco mai. Mi sembra che venga fuori una caratteristica che non mi è simpatica: la faccia di uno che non c’è, che sta sempre da un’altra parte, quindi la faccia di uno che non si vuol compromettere. Scriverei sulla busta ‘facce infide’”.


Addirittura?

“Dal momento che lei mi invita a questo gioco…..Però una faccia che si può anche facilmente truccare, mascherare. Una faccia che dice ‘torno subito’, questa mi sembrerebbe la definizione più esatta”.

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