Il Tempo del Sogno degli aborigeni australiani - di Luciano Silva
Spunti e riflessioni da “”The Dreaming” di W.E.H.Stanner e viaggio in Australia
08/04/2024
Foto credits: Luciano Silva (Uluru - Ayers Rock - Australia).
"White man got no dreaming,
Him go ‘nother way.
White man, him go different.
Him got road belong himself".
Muta, a Murinbata
Entrare nel “tempo del sogno”, come lo chiamano gli aborigeni australiani, attraverso le letture e le preziose testimonianze riportate da due dei principali antropologi che il secolo scorso vissero a contatto con le popolazioni aborigene nelle loro ricerche sul campo, W.E.H.Stanner e A.P Elkin, è una sfida non da poco per la psicologia occidentale, anche se la conoscenza e la pratica dell’arte del sognare sciamanico ci aiuta a comprendere, al netto delle differenze culturali e sociali tra il nostro modo di vivere e concepire la vita e il loro, alcune concezioni sul sogno e l’esperienza del sognare proprie di questa cultura.
Stanner nacque a Watsons Bay nel 1905 e il suo incontro all’università di Sydney con il primo professore di antropologia in Australia, l’inglese A.R.Radcliffe-Brown, lo fece dirottare dai suoi studi economici a quelli antropologici. Ma nel 1931 Radcliffe-Brown lasciò Sidney e venne sostituito dal ministro anglicano A.P.Elkin i cui studi sugli aborigeni australiani1 hanno contribuito a far luce su quella cultura nascosta e dimenticata e la preziosità dei loro insegnamenti sul sogno e la visione totemica della natura e della vita. Con la supervisione di Elkin, Stanner fece la sua tesi di laurea e la sua ricerca sul campo, richiamato da ciò che sarcasticamente definì la presenza di “selvaggi senza macchia” nella zona attorno Daly River nei territori del nord, zone remote originariamente possedute dagli indigeni Mulluk-Mulluk, e non ancora raggiunte dalle influenze nefaste del colonialismo inglese.
Stanner (1905-1981) è uno dei più grandi studiosi bianchi anglo-australiani dell'Australia aborigena. Il suo "The Dreaming"2 (pubblicato per la prima volta nel 1956) rappresenta una pietra miliare negli studi sull'Australia aborigena poiché tenta di spiegare un modo radicalmente diverso di comprendere il mondo. È un saggio breve, profondo e influente.
Tanto per cominciare, occorre dare una definizione del termine inglese "The Dreaming" usato dagli studiosi anglosassoni come termine generico per cercare di spiegare il significato del sognare inteso dagli aborigeni australiani in maniera molto più ampia. Il sognare per loro è un insieme di esperienze, comportamenti e azioni, sia notturne che diurne, non limitate alla mera interpretazione di visioni oniriche notturne, come lo è per la maggior parte di noi, ma il cui significato centrale include il rientrare in contatto con un'epoca in cui gli antenati sovrumani (divinità, eroi cultuali o animali totemici) crearono il mondo come lo conosciamo ora e riattualizzarlo, agirlo, attraverso riti, cerimonie o regole individuali e sociali, nel tempo presente. Ma nella loro idea di sogno non vi è, sottolinea lo Stanner, n’è il concetto di ‘tempo’ o di ‘storia’ come lo intendiamo noi, non esiste alcuna parola aborigena per esprimere il ‘tempo’ come concetto astratto, così come il senso della ‘storia’ è del tutto alieno a loro.
Se noi sogniamo qualcosa, ad esempio la notte scorsa, secondo la loro visione non possiamo dire "il sogno è avvenuto nel passato" perché per loro il sogno accade continuamente. Per aiutarci a cogliere questo senso del tempo possiamo, per fare un riferimento alla cultura classica della Grecia antica, immaginare gli antichi greci mentre guardano il cielo in una notte limpida e stellata e vedessero il dio Orione cacciare: un evento che svolge nel passato, nel presente o nel futuro? Potremmo creare una parola basata su "ovunque", vale a dire "ogniquando"; e dunque potremmo dire che "Orione caccia ogniquando", potremmo dire anche in ogni istante ma anche dappertutto. Allo stesso modo, Stanner suggerisce il termine "everywhen" per incapsulare il senso del tempo nelle culture indigene australiane.
Per comprendere come il sogno viene concepito e vissuto dagli aborigeni australiani, possiamo riassumere e sintetizzare alcuni punti fondamentali che possono fare la differenza, sia dal punto di vista teorico rispetto a tutte le filosofie o discipline occidentali che si sono occupate del sognare, sia pragmatico per coloro che sono interessati ad esplorare l’esperienza onirica e trarre spunto e ispirazione da una cultura arcaica di un popolo di sognatori.
Parti dei concetti seguenti sono tratti da “The Dreaming & Other Essays” di W.E.H. Stanner, un testo che raccoglie la maggior parte dei saggi di “White man got no dreaming” con l’aggiunta di “Aboriginal Humour” che venne pubblicato poco dopo la sua morte.
Il Sogno
Il Sogno è il tempo degli antenati eroici; uno spazio nel quale si mostrano i totem personali, clanici, cultuali, genealogici della tribù e il sognatore riceve da loro guida, iniziazione e guarigione; una realtà a cui puoi connetterti mentre dormi e sogni.
Il Sognare si riferisce a un tempo sacro ed eroico in cui gli uomini e la natura iniziarono ad esistere, ma non c'è desiderio o nostalgia per quel periodo. Un indigeno non ha il senso del tempo come lo intendiamo noi. Può ricevere il suo totem per il fatto di averlo sognato o spiegare un'usanza o un comportamento dovuto al sogno. In realtà, tramite il sogno si accede al tempo mitico, al momento in cui comparvero o vissero "gli uomini dell'antichità", gli antenati ancestrali (in forma umana, spirituale o totemica, come il serpente arcobaleno) e dunque il sogno mette in contatto il sognatore con quel tempo e con il qui-e-ora. Il tempo non è vissuto o concepito linearmente ma è ‘piegato’ e si dispiega in cicli. Il sogno è molte cose ancora, comprende il principio dell'ordine, ciò che fu integralmente puro e originario in “illo tempore”, al momento della creazione, e che i miti ancora oggi raccontano. Tutto questo per loro è “realmente reale”. Come disse Jung, il sogno come mito individuale, il mito come sogno collettivo. “E’ attraverso l’atto del sognare”, dice ancora Stanner, “che la mente aborigena crea un contatto – o pensa di crearlo – con tutto ciò che di misterioso connette il Sogno con li Qui e Ora”.
Mente-Corpo
Gli europei hanno creato distinzioni tra mente e corpo che non hanno senso nel modo di pensare degli aborigeni. Essi pensano che mente, corpo, spirito, personalità (che possiamo chiamare anima) e nome siano una cosa sola. Corpo, spirito, fantasma, ombra, nome, luogo dello spirito e totem sono racchiusi in una modalità di credenza e conoscenza piuttosto che in una forma pensiero. Il concetto di “persona” è molto ampio, include il nome dell’individuo (chiedere il nome a un aborigeno è come se chiedessero qualcosa a noi di intimo che ci provocherebbe vergogna rivelare), il suo spirito, la sua ombra, il suo totem, il totem associato al luogo ove vive (il genius loci, lo chiamavano i latini), ma anche parenti diretti o acquisiti. Se fai qualcosa al totem di mio cognato lo fai a me, in alcune tribù. Le relazioni genealogiche sono molto diverse e complicate rispetto alle nostre. Un aborigeno vede come una unità anche due persone, due fratelli o un nonno o un nipote, o addirittura un cognato, o anche qualcosa di inanimato (almeno per la filosofia e psicologia occidentale moderna). Concetto che, a grandi linee, è stato abbozzato anche dalla moderna psicologia che vede l’individuo non come essere isolato ma include nella definizione di ‘persona’ o ‘personalità’ parte dell’ambiente in cui il soggetto vive. Risuona con “all my relations” dei nativi americani, io non sono solo io ma sono anche tutte le mie relazioni.
C'è quindi un'unità nel pensiero indigeno che unifica corpo e spirito; persona e cosa; vita di veglia e di sogno (ad esempio, generi un figlio attraverso un sogno). Per alcune tribù, un neonato riceve il suo animale totem alla nascita, per altre al concepimento, per altre è già li ad attendere il nascituro quando la madre si è accorta di essere incinta (non siamo noi a scegliere i nostri animali totem, sono loro che scelgono noi). L’atto sessuale non è la causa principale, ma solo un mezzo per portare alla luce uno spirito-bambino che si nasconde nel sogno ed è pronto a incarnarsi (gli aborigeni credono alla reincarnazione), oppure si nasconde in natura (ad esempio, nelle pozze d’acqua). L’attribuzione di un animale (o pianta) totem conferisce al nascituro una serie di poteri, vincoli e tabù che deve rispettare tutta la vita, come ad esempio la proibizione di mangiare quell’animale o quella pianta o creare qualsiasi tipo di danno, se ciò accade è come se accadesse a loro. Al bambino alla nascita viene dato o, meglio, il suo spirito gli conferisce, una via di suono, una ‘songline’, una trama musicale sulla quale si intreccia e si può sviluppare il suo destino. Le vie di suono collegano non solo l’individuo al suo spirito totem ma anche una intera tribù, un clan, una fratria (insieme di persone unite da affiliazioni sociali, eredità mitologiche o doveri cerimoniali) o un orda (un gruppo locale costituito dagli individui che vi sono nati e le donne che si sono aggiunte in matrimonio).
Detto ciò, sembrerebbe che gli aborigeni vivano sempre in una sorta di trance mistica perenne ma la loro vita invece ha aspetti pragmatici come tutti noi. A parte questo misticismo, che deriva dalla loro totale immersione nella Natura e dalla percezione di vivere in una ‘terra parlante’, c'è anche una logica pratica nella vita aborigena, ad esempio per rintracciare un canguro ferito non ci si affida al misticismo ma alla pratica. Quindi gli aborigeni non sono semplicemente superstiziosi ma sanno che padroneggiare la magia e il regno degli spiriti è una questione fondamentale di sopravvivenza. Per tale motivo, il ruolo degli uomini di medicina è indiscusso: ad essi ci si affida per propiziare la caccia, per combattere i nemici, per guarire da intrusioni o malefici, per proteggere la tribù da minacce di vario tipo e, ovviamente, per rinnovare attraverso i rituali di iniziazione e di passaggio della vita il contatto tra la propria gente e gli antenati ancestrali e gli eroi mitici, meglio sarebbe dire, il contratto stabilito alla nascita con loro, riportare il “dreamtime” nel tempo presente.
Non esistendo un concetto di tempo cronologico e di storia, l’elemento essenziale per queste comunità è la costanza, il mantenimento dell’equilibrio tra uomo, natura, antenati ancestrali, spiriti. Per tale motivo, non c’è interesse alla crescita, al cambiamento, ma solo al rispetto di un equilibrio, basato su una sacra reciprocità, che è stato ricevuto e che deve essere mantenuto così anche dalle generazioni future.
Vivere nel “Dreamtime”
Le centinaia di storie sul sogno raccontate dagli aborigeni e raccolte dallo Stanner e da altri antropologi presentano tutte almeno tre elementi essenziali.
Il primo aspetto riguarda il sogno che racconta grandi meraviglie: come il fuoco e l’acqua furono rubati e poi riscattati; come qualcuno ha commesso una stregoneria e ne ha pagato le conseguenze; come le colline, i fiumi, le pozze d’acqua furono create; come il sole, la luna e le stelle furono collocati nel firmamento; gli affari della vita quotidiana ecc. Il sogno riporta una visione rispetto a ciò che è "permanente e ordinato", la "base del mondo e della vita", il "principio che anima le cose".
Il secondo aspetto è che tramite il sognare si apprende come certe cose sono state istituite, come il canguro dal naso nero ha ottenuto il suo naso nero; come una specie animale o vegetale si è staccata dalla sua progenie o dal suo genotipo e si è evoluta per conto suo; come la divisione in tribù, clan, gruppi linguistici fu istituita; come uno spirito bambino è stato posto originariamente in una pozza d’acqua in attesa di qualcuno che lo concepisse o gli spiriti dei venti o delle foglie.
Un terzo elemento è che i sogni forniscono modelli secondo cui vivere la vita. Il sogno non definisce ciò che è vero per il sognatore, ma piuttosto fornisce una chiave per la “verità” e la condotta da tenere nell’ambito sociale per la sopravvivenza e il benessere non solo di sé stessi ma di tutto il clan o tribù. Affidarsi dunque alla guida dei sogni è un fatto di sopravvivenza (in realtà lo è anche per noi, anche se non ce ne accorgiamo). Mentre gli europei usano interpretazioni deduttive e si tengono al di fuori della vita, rinunciando al potere che i sogni o le nostre sorgenti oniriche possono e vogliono trasmetterci, gli aborigeni portano i loro sogni, miti e filosofie nella vita, rivivendoli o teatralizzandoli nei rituali, nell'arte, nei costumi e nelle relazioni sociali anche profane.
Il Sogno come modello di vita
Il Sogno non riguarda la comprensione del mondo; fornisce semplicemente un modello di vita che devi accettare. Sia i neri che i bianchi hanno il dono metafisico di rivolgersi all'esterno di sé stessi e di contemplarsi (ndr. traduco qui con “neri” il termine usato da Stanner nel secolo scorso per riferirsi agli aborigeni di pelle nera ‘blackfellow’, oggi magari non più “politicamente corretta”, riferendosi al colore della pelle per distinguere gli aborigeni dai “bianchi” europei). La loro non è una religione di tipo semitico. Se consideriamo i racconti dei sogni, scopriamo che "i loro stati d'animo di fondo sono del tutto diversi e la loro riserva di significato molto irregolare. Assentono, assecondano piuttosto che inveire contro il destino". Come detto prima, la regola è il mantenimento, la conservazione dell’equilibrio che vigeva nei tempi mitici e che deve essere a tutti costi preservato nel tempo presente che altro non è che la continuazione di quel tempo mitico in un presente eterno. Il sognare non determina solo cosa è la vita ma anche cosa può essere. La vita, per così dire, è una cosa che ha solo una possibilità, e questo significato ce lo riporta il ‘Sognare’. Il sognare offre con assoluta veridicità la risposta a tutte le domande del ‘perché’ e del ‘come’. In questo senso, dice Stanner, “i racconti nel Dreamtime possono essere considerati, forse non una definizione, ma una chiave di verità”.
Il Sognare per gli aborigeni mostra due abilità fondamentali che sono insiti nell’animo umano: la prima la possiamo chiamare un ‘dono metafisico” ovvero l’abilità di trascendere sé stessi attraverso atti di immaginazione così che possiamo muoverci “al di fiori” di noi e trasformare l’universo, sé stessi o qualcuno in oggetti di contemplazione. La seconda, affidarci al sogno come una guida che dà un senso e sostanzia l’esperienza umana, che ci aiuta a trovare un principio sull’intera condizione umana. Gli aborigeni non hanno dei, giusti o ingiusti, che giudicano il mondo. Nemmeno sforzandosi possiamo vedere nei loro eroi culturali come Baiame e Darumulum un indizio che ci faccia pensare al dio semitico Yahveh, geloso, onnisciente e onnipotente. Le indicazioni etiche sono vaghe e di consistenza piuttosto grossolana. Nessuna concezione di grazia o redenzione, nessun riferimento alla pace interiore o alla riconciliazione, nessun paradiso di ricompensa o inferni di punizione. L’aldilà per gli aborigeni non è altro che una replica, un riflesso della vita mondana così che nessuno ha bisogno di costruirsi o fuggire in un santuario interiore per sfuggire dal mondo. Non ci sono profeti, santi o illuminati. C’è un concetto di bontà ma senza scrupoli. C’è una legge morale ma, come negli inizi, nel Dreamtime, gli uomini sono buoni e cattivi e nessuno è tormentato dalla conoscenza. Di conseguenza gli aborigeni non si vergognano n’è sono ispirati da tesi religiose da ciò che gli uomini potrebbero diventare tramite la fede o la grazia, ma la loro metafisica asserisce solo ciò che gli uomini devono essere perché i loro termini di vita sono già fissati. Non si tratta di diventare altro rispetto a ciò che eravamo e che siamo e che saremo.
Le storie di sogno già mostrano ciò che era, ciò che è e ciò che sarà, non c’è bisogno di inventarsi nuovi paradisi, o inferni, interiori o esteriori. Vi è solo un modello mitico al quale aderire e conformarsi, e grazie al mantenimento di questo modello tutto quanto procede in ordine ed equilibrio, gli uomini e la natura.
Quel modello di vita è essere tutt’uno con la Natura
Gli indigeni hanno un impatto minimo sull'ambiente, ad eccezione degli artefatti. Sono "tutt'uno" con la natura". Vivono in gruppi, ma occasionalmente si incontrano come tribù come per un corroboree. Seguono regolarmente l'approvvigionamento alimentare stagionale. Sono un popolo di cacciatori-raccoglitori, il concetto di seminare per far crescere una pianta non fa parte della loro visione, men che meno farne delle scorte. Prendono solo ciò che la natura offre loro, e dunque sono nomadi, vivono in capanne stanziali per brevi periodi poi, per sopravvivere, devono seguire i cicli delle stagioni e sapere dove certi alberi fruttificano, quando e dove avviene un flusso migratorio degli animali per spostarsi in quei territori per la raccolta o la caccia. Non esiste nella loro visione la possibilità di “dominare” la natura, n’è di cercare di cambiarla. Essi non si sentono n’è “figli” della natura e neanche “padroni” della natura. Si sentono solo “uno” con la natura. Il loro unico principio ecologico della vita si può riassumere nell’aforisma baconiano “natura non nisi parendo vincitur” (la natura non la si vince se non obbedendole).
Da questo punto di vista (e non solo), si comprende come gli effetti della colonizzazione inglese che ha sottratto vasti territori agli indigeni per impiantare aziende agricole di coltivazione o d’allevamento avesse prodotto i suoi effetti devastanti, unitamente alla conversione forzata dei missionari. Due civiltà distanti che si incontrarono e talvolta si scontrarono. Una vita stanziale contro una vita nomade; la “manipolazione” della natura con l’agricoltura e l’allevamento (e di conseguenza la deforestazione) per creare campi coltivabili contro il prendere solo ciò che la natura offre; una religione monoteista contro una visione animista e totemica; la discriminazione sociale dei bianchi evoluti e civilizzati nei confronti dei neri selvaggi e incivili; lo sfruttamento coatto, in cambio di beni di facile approvvigionamento, di personale indigeno presso i grandi allevamenti e fattorie. Quest’ultimo passaggio non ha che peggiorato la situazione: le giovani generazioni si sono fatte attrarre da un modello di vita ben lontano da quello tradizionale, una vita stanziale rispetto a quella nomade, la rinuncia a dolorosi rituali di iniziazione e a rigide regole sociali che condizionavano l’accoppiamento e ogni fase della vita. Un miraggio purtroppo, come in altri casi, finito spesso nell’abuso di alcool e droga o di donne indigene usate come merce di scambio per ricevere favori o protezione da parte dei nuovi coloni.
Gli ultimi anziani, intervistati il secolo scorso dagli antropologi, dissero a malincuore che il “Tempo del Sogno” è finito con loro, i giovani si sono fatti corrompere. Ma se la realtà del sogno è reale quanto le piramidi d’Egitto e le meraviglie del Dreamtime sono eterne in quanto al di fuori dello spazio e del tempo ordinari, i portali e gli spazi di accesso a quella realtà sono ancora aperti per chi ha voglia di seguirli o ne sente il richiamo.
Note bibliografiche
- A.P.Elkin, “Sciamani d’Australia – Rito e iniziazione nella società aborigena”, Raffaello Cortina Editore, Milano 2002; “Gli aborigeni australiani – seimila anni di civiltà della pietra”, Iduna Edizioni, Milano 2018
- W.E.Stanner, “The Dreaming & Other Essays”, Black Inc Agenda, 2019; “White man got no dreaming – Essays 1938-1973, Austalian National University Presso, Canberra, 1979.
Per ulteriori approfondimenti
- “Sognare nel tempo del sogno aborigeno”, in “Storia segreta dei sogni” di Robert Moss, pag. 28-31, Castelvecchi editore.
- Bruce Chatwin, “Le Vie dei Canti”, Adelphi
- “A World Of Relationships: Itineraries, Dreams, And Events In The Australian Western Desert” di Sylvie Poirier, Univ of Toronto Pr (14 marzo 2005)
- “Treading Lightly: The Hidden Wisdom of the World's Oldest People”, Edizione Inglese di Karl Erik Sveiby e Tex Skuthorpe, Allen & Unwin (1 giugno 2006)
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