Falsi ricordi, falsi terapeuti e terapie regressive - di Luciano Silva
La manipolazione delle memorie
21/09/2022
“Il corpo conserva le tracce: se la memoria del trauma è codificata nelle viscere, nelle emozioni sconvolgenti e di crepacuore, nei disturbi autoimmuni e nei problemi muscolo/scheletrici, e se la comunicazione viscere/cervello/mente è la via maestra per la regolazione emotiva, ciò richiede un radicale mutamento del nostro modo di concepire la terapia”.
Bessel Van Der Kolk – Professore di psichiatria e fondatore del Trauma Center di Brookline
“La memoria è l’accumulo storico di menzogne… Come la memoria, la buona fiction deve avere date e orari precisi; in questo modo riesce a sembrare vera”.
Daniel Schmid – cineasta svizzero
La ricapitolazione del proprio passato e dei fantasmi che ci tengono legati ai nostri schemi di paura, di fuga, lotta o congelamento è indispensabile se si vuole vivere o tornare a vivere pienamente il proprio corpo, le proprie emozioni e la consapevolezza di sé. Soggetti che conservano tracce di memorie traumatiche e/o presentano disturbi post traumatici spesso entrano in uno stato di congelamento corporeo tale da non sentire più alcune parti del corpo o tutto il corpo interamente, le loro percezioni sensoriali non funzionano più in quanto il trauma ha intaccato la loro consapevolezza sensoriale. Studi recenti hanno dimostrato che per far fronte alla paura che persiste anche molto tempo dopo l’evento traumatico, queste persone hanno imparato a spegnere aree del cervello (quelle che si trovano nella linea mediana del cervello che partono dagli occhi, attraversano il centro del cervello e arrivano sino alla parte posteriore) deputate a trasmettere le sensazioni e le emozioni che accompagnano quel terrore soggiacente che scatena ancora reazioni e risposte d’emergenza a fronte di piccole stimolazioni del sistema nervoso che possano anche lontanamente rievocare l’episodio vissuto.
Per una sorta di tragico adattamento, le persone con memorie traumatiche mortificano la capacità di sentirsi pienamente vivi nel tentativo di annullare le proprie sensazioni terrificanti e sopraffacenti. Esse sentono un costante pericolo dentro il loro corpo, il passato agisce in forma di un disagio interiore tormentato. Il loro corpo è bombardato da continui segnali viscerali di pericolo e nel tentativo di controllare questi processi iniziano ignorare e diventare insensibili a questi segnali al punto da abbandonare la consapevolezza di ciò che viene mosso dentro di loro. Quanto più cercano di eliminare o ignorare questi segnali, tanto più sprofondano in uno stato di confusione e paura che al limite possono sfociare nell’alessitimia (termine greco che indica l’impossibilità di tradurre in parole le emozioni). Per difendersi da emozioni paurose e sopraffacenti si anestetizzano prendendo le distanze anche da quelle emozioni “positive” e nutrienti che ci permettono di sentirsi vivi, connessi e in contatto con il nostro potere personale e con gli altri.
Alla domanda: “come ti sentiresti se vedessi un auto arrivare verso di te a grande velocità”?, la maggior parte delle persone risponderebbe “sarei terrorizzato” oppure “sarei congelato dalla paura”, un alessitimico invece potrebbe dire “Come mi sento? Non so…mi toglierei di mezzo”(1). Sostanzialmente tendono a registrare le emozioni come problemi fisici piuttosto che come segnali che meritano la loro attenzione, e il non riuscire a riconoscere e nominare le proprie emozioni fa si che queste restino trattenute nel corpo e che prima o poi ce le riporta sottoforma di sintomi o sindromi, invece di sentirsi arrabbiati o tristi, sperimentano dolori muscolari o disturbi gastro-intestinali ad esempio.
La perdita di contatto col proprio corpo porta alla difficoltà di poter riferire cosa li sconvolge, a non riconoscere le proprie emozioni e di conseguenza anche quelle degli altri sviluppando una poca o scarsa sintonizzazione emotiva, fondamentale nelle relazioni umane, a perdere il contatto con le proprie risorse protettive (che può portare facilmente alla rivittimizzazione), e soprattutto alla notevole difficoltà a provare piacere, a essere sensuali e a trovare un senso alle cose.
L’Agency , termine mutuato dalla teoria sociale-cognitiva, è intesa come la capacità di agire in modo attivo e trasformativo nel contesto in cui si è inseriti e si realizza attraverso la facoltà di generare azioni finalizzate ad ottenere degli scopi, sostanzialmente esprime la sensazione di avere “in carico” la propria vita. Ma come disse un grande terapeuta corporeo Moshe Feldenkrais : “Non si può fare ciò che si vuole, se non si sa cosa si sta facendo”. Le implicazioni sono chiare: occorre sapere dove si è ed essere consapevoli di ciò che sta accadendo dentro e fuori di noi per sentirsi presenti. Sapere cosa sentiamo è il primo passo per capire perché ci sentiamo in quel modo.
L’approccio terapeutico a “guarire” le nostre ferite e memorie traumatiche ha seguito in passato, e ancor oggi di fatto si presenta lo stesso scenario, due percorsi pressoché contrapposti, percorsi che si basano su differenti ipotesi di partenza circa il dove risiedono queste memorie e di conseguenza quale sia la direzione ottimale per sviluppare una terapia adeguata a trasformarle e risolverle.
Forme terapeutiche puramente cognitivistiche partivano dal presupposto che le memorie traumatiche potessero esser risolte attraverso una “rielaborazione” del trauma partendo da ciò che il soggetto poteva ricordare dell’evento stesso, ricordi dunque espliciti che mantenevano tracce dell’evento in forma dichiarativa ed episodica. Questi approcci, perseguiti ancor oggi da forme di terapie catartiche, sia provenienti dall’ambito della psicoterapia (come l’ipnosi regressiva ad esempio), sia di tipo energetico (come alcune forme di bioenergetica o nella respirazione olotropica), spingono o conducono le persone a rivivere il ricordo dell’evento traumatico con conseguenze talvolta di penose e ripetute abreazioni(2) con l’intento del terapeuta a provocare catarsi violente nel tentativo di far emergere frammenti di ricordi residuali che giacciono perlopiù nella parte “inconscia” della memoria. Tale parte inconscia,non accessibile ad un puro approccio cognitivo, è quella memoria detta “implicita”, nelle due componenti emozionale e soprattutto procedurale (ovvero corporea). Con queste forme di terapia, che ho avuto modo di vivere personalmente ed osservarle anche in situazioni di gruppo, le persone vengono indotte a scaricare in qualche modo la propria rabbia o sofferenza, il che porta di certo a un sollievo temporaneo con sensazioni momentanee di benessere e anche di piacere(3), ma che in molti casi provoca nient’altro che inutili e gravi sofferenze, talvolta anche col rischio di una ritraumatizzazione della persona.
Molte di queste terapie erano basate su esperimenti condotti su pazienti sofferenti di depressione, ansia e crisi di panico che cercavano disperatamente una causa per i loro disturbi per potersi curare. In casi emergenziali, è stato dimostrato che agisce una sorta di “coazione a capire” del cervello, quando il corpo manda segnali di emergenza la mente cerca disperatamente un perché del proprio disagio, e facilmente può essere condizionata ad accogliere qualsiasi proposta “convincente” che qualche terapeuta, inconsapevolmente ma talvolta purtroppo volontariamente (per poi offrire subito una soluzione preconfezionata a suon di lauti compensi), possa dare una risposta immediata al proprio disagio. L’autenticità dei ricordi cosi “recuperati” viene sostenuta e convalidata da una forte intensità emotiva causata dalle continue abreazioni, e tale relazione tra intensità emotiva e autenticità associata ad un evento è stata ormai dimostrata da diversi studi e sperimentazioni.
E’ proprio quando ci troviamo in tali stati emotivamente carichi o in momenti di fragilità che si creano le circostanze per cadere facilmente preda di falsi ricordi magari suggeriti o suggestionati da terapeuti incapaci o malintenzionati. Le emozioni plasmano le credenze e queste a loro volta rinforzano le emozioni. Questo circuito va a costruire una retroazione positiva che diventa una vera propria trappola per l’autenticità dei nostri ricordi e delle nostre memorie traumatiche, potenziata dalla tendenza della mente umana a fornire immagini che cercano di “spiegarci” ciò che proviamo e che diano una risposta immediata al nostro disagio. Prima di addentrarci nel vedere come possiamo incorrere in questi pericoli è opportuno che si dia qualche informazione sul funzionamento della nostra memoria.
La struttura della memoria
Fig. 1: la struttura della memoria
La memoria è ormai lontana dall’essere considerata, come si ipotizzava tempo fa, localizzata in un archivio in qualche parte del nostro cervello, come una sorta di hard disk al quale accediamo a nostra volontà quando decidiamo di ricordare qualche evento del passato o la lista della spesa. I recenti studi delle neuroscienze circa la plasticità del cervello o i processi di rievocazione dei nostri ricordi, hanno dimostrato che le nostre memorie non presentano sempre gli stessi contenuti ogni qualvolta li rievochiamo, ma che è l’atto stesso della rievocazione il processo cruciale che ci permette di accedere a un certo ricordo. Il momento in cui ricordiamo qualcosa, volontariamente o involontariamente, è dunque fortemente condizionato dal nostro stato psico-fisico, emotivo o cognitivo presente nell’istante in cui decidiamo di ricordare qualcosa sia quando, ad esempio, l’accesso proviene da un atto consapevole il cui contenuto è nella memoria conscia come cosa devo comperare oggi al supermercato o il nome del mio cane, sia nel momento in cui il corpo implicitamente e spontaneamente (e dunque accedendo a una memoria perlopiù inconscia) attua una risposta a fronte di una sollecitazione esterna, come ad esempio, quando allontaniamo istantaneamente la mano se la avviciniamo troppo al fuoco.
Prima di procedere è opportuno riassumere i vari tipi di memoria cosi da identificare dove risiedono la maggior parte delle nostre memorie traumatiche, oggetto delle varie terapie sia di tipo”top-down”, ovvero quelle cognitiviste che partono dalla mente attraverso la rielaborazione dei ricordi consci per poter accedere a quelli inconsci e procedurali, sia “bottom-up” cioè quelle che partono dal corpo per rinegoziare il processo di risposta al trauma e far si che la persona possa accedere spontaneamente a quel ricordo elaborando così nuovi significati.
In termini molto generali (vedi fig. 1) la memoria si distingue in memoria esplicita, che è conscia e si divide in dichiarativa ed episodica, e la memoria implicita che è relativamente inconscia e si suddivide in emotiva e procedurale.
La memoria esplicita dichiarativa è quella che ci serve per fare la spesa, per ricordare consciamente le cose con un inizio, uno sviluppo e una conclusione. Quasi tutti i profani (ma anche molti terapeuti) considerano la memoria soprattutto in questa forma conscia e concreta. Questi tipi di ricordi sono solitamente privi di contenuti emotivi ma ci permettono di lavorare al computer, pagare le tasse, scrivere libri. Ai fini di un lavoro sui traumi o generalmente di tipo psicodinamico, i ricordi dichiarativi sono abbastanza privi di valore terapeutico eppure costituiscono la componente fondamentale di molti tipi di intervento cognitivo/comportamentale.
La memoria esplicita ha anche una componente episodica (memoria chiamata anche autobiografica) che affiora talvolta spontaneamente sottoforma di scene del passato. In generale questi sono ricordi più sfumati di quelli dichiarativi, possono già avere un certo tono affettivo od onirico, si tratta di ricordi vaghi e indistinti ma con una qualità eidetica che può riportare immagini vivide e reali. La memoria episodica ci aiuta ad orientarci nel tempo e nello spazio, seleziona i ricordi e li proietta nel futuro.
In contrasto con gli espliciti ricordi consci (dichiarativi o episodici) c’è la categoria dei ricordi impliciti, ovvero ricordi che non possono essere rievocati intenzionalmente e che sono composti per lo più da un insieme di sensazioni, emozioni e comportamenti che restano al di sotto della consapevolezza conscia. Anche questa memoria si può vedere strutturata in due sottotipi, la memoria emotiva e quella procedurale (ovvero corporea).
La memoria emotiva ci aiuta a codificare le esperienze passate in base alle emozioni vissute in quei momenti cosi da poterci orientare per le nostre scelte future. Le emozioni forniscono informazioni rilevanti sia ai fini della sopravvivenza (la paura ad esempio ci aiuta a non oltrepassare i nostri limiti) sia per suggerire risposte adeguate a fronte di analoghe stimolazioni esterne, nell’interazione sociale o di fronte a un pericolo (reale o percepito). I ricordi emotivi vengono attivati da situazioni simili per intensità o livello emotivo vissute in passato, che hanno determinato lo sviluppo di ricordi procedurali basati su schemi d’azione finalizzati alla sopravvivenza. Ad esempio, la vista di un uomo vestito di nero che ci segue, anche se del tutto innocuo e in pieno giorno, magari attiva il ricordo di un episodio di violenza subito e istintivamente il nostro corpo inizia ad attivare la sua risposta verso la fuga o il congelamento oppure la sua modalità di sopravvivenza rimasta come traccia nella memoria procedurale. Oppure, il disgusto rimasto nel nostro DNA come sensazione derivata dall’ingestione di erbe velenose da parte dei nostri antenati ha contribuito a sviluppare (questo in generale accade per tutti i mammiferi) una reazione di evitamento e lontananza da pericoli derivanti dai possibili e successivi contatti con quel veleno.
La presenza di ricordi associati ad emozioni che sono state troppo intense per noi o traumatiche, portano la mente gradualmente a spegnere e allontanare il contatto con le emozioni e con la propria sintonizzazione emotiva sino a portare il soggetto al congelamento. Come ha raccontato Antonio Damasio in una serie di illuminanti libri scientifici dove chiariva il rapporto tra gli stati del corpo, emozioni e sopravvivenza, il neurologo si esprime cosi nel suo testo più importante “Emozioni e Coscienza”(4) : “Talvolta usiamo la mente non per scoprire i fatti ma per nasconderli. Usiamo una parte della mente come schermo per impedire a un’altra sua parte di sentire quel che accade altrove. La schermatura non è necessariamente intenzionale – il nostro offuscamento non è sempre deliberato; in ogni caso, lo schermo nasconde davvero. Tra le cose che nasconde nel modo più efficace vi è il corpo. Il nostro stesso corpo, e con ciò intendo i suoi meandri, le sue parti interne. Come un velo nasconde il corpo a difesa del pudore, ma non troppo, lo schermo elimina in parte dalla mente gli stati interni del corpo, quelli che costituiscono il flusso della vita nel suo vagabondare quotidiano”. Lo schermo agisce dunque sia per proteggerci dagli eventi stressanti della vita ma al tempo stesso, continua Damasio, “Tende a impedirci di cogliere quali possano essere l’origine e la natura di ciò che chiamiamo sé”. Continuando il lavoro di William James, Damasio afferma che il nucleo dell’autoconsapevolezza esista nelle sensazioni fisiche che trasmettono gli stati interni vissuti dal corpo in ogni istante. Questo perché, e ciò è rilevante ai fini dell’approccio terapeutico che si sceglie, i ricordi emotivi sono vissuti dal corpo come sensazioni fisiche. E’ qui che diventa determinante ai fini della guarigione e trasformazione delle memorie traumatiche, il ruolo assunto dalla memoria procedurale.
La memoria procedurale è composta da impulsi, movimenti, sensazioni corporee interne che ci guidano nella modalità con la quale agiamo, reagiamo, veniamo attratti da qualcosa o al contrario veniamo respinti da qualcosa, ad esempio da una sensazione di pericolo o da uno stato per noi emotivamente sopraffacente. Riguarda anche abilità e abitudini, il sapere come fare le cose senza doverci pensare consciamente come andare in bicicletta, cambiare le marce alla macchina, ballare il tango.
Anch’essa si può suddividere in tre ampie categorie: una prima categoria comprende proprio queste azioni motorie apprese, come appunto andare in bicicletta senza più dove pensare a come pedalare o mantenere l’equilibrio, il corpo sa già come farlo.
Una seconda categoria di ricordi procedurali riguarda le risposte di emergenza che ci aiutano a sopravvivere davanti a un pericolo o a una minaccia. Se ci troviamo davanti un leone o stiamo camminando di notte e notiamo qualcuno che ci insegue, immediatamente il nostro sguardo rimane fisso sulla belva (fase di orientamento alla minaccia), i muscoli si irrigidiscono e si attivano tutte le risposte del sistema nervoso simpatico, il cuore aumenta il battito per pompare il sangue alle estremità e preparare la muscolatura alla fuga o alla lotta, il respiro si fa di conseguenza intenso e corto, ci prepariamo in un secondo a rispondere al pericolo.
La terza categoria comprende quegli schemi motori appresi che ci fanno avvicinare o allontanare, attrarre o respingere da qualcosa o qualcuno. Ci avviciniamo fisicamente a ciò che sentiamo nutriente e “buono” per noi, ci allontaniamo sempre istintivamente da ciò che sentiamo o riteniamo tossico per noi (come nell’esempio citato in precedenza). Ad esempio, allunghiamo una mano o un braccio verso la persona amata, al tempo stesso il corpo si ritrae da cibi che hanno un cattivo odore o evitiamo le persone che sentiamo emotivamente tossiche. Questi meccanismi d’azione sono comuni a tutti gli organismi viventi ma è proprio la loro costante permanenza e iperattivazione nella memoria emotiva e procedurale, causata da un evento traumatico del passato, che provoca uno stato di costante pericolo nella persona anche quando il pericolo reale è cessato magari da un pezzo, e che trasforma una salvifica reazione di sopravvivenza in una esagerata reazione di trasalimento, fuga, lotta o congelamento alla minima rievocazione di quell’evento passato.
Come dice giustamente Peter Levine: “Di fatto, i ricordi procedurali ed emotivi persistenti e disadattativi costituiscono il meccanismo centrale alla base di tutti i traumi, così come di molti problemi sociali e relazionali”(5) . Questo è il motivo per il quale gli approcci corporei alla terapia del trauma, come Somatic Experiencing ad esempio, agiscono proprio per:
• risvegliare l’interocezione del corpo (felt sense) e i suoi vissuti sensoriali rimasti intrappolati nel sistema nervoso, aiutando le persone a riavvicinarsi alle proprie emozioni anche se sopraffacenti;
• risolvere quegli schemi disadattativi di sopravvivenza rimasti congelati nella memoria procedurale al momento del trauma che magari hanno condizionato il suo contatto sociale, le sue relazioni intime o il suo senso di sé;
• aiutare le persone a familiarizzare (anziché reprimere o scaricare catarticamente) con le energie trattenute che mano a mano, durante il lavoro terapeutico, vengono rilasciate dall’esperienza interna;
• completare le risposte rimaste interrotte o incompiute durante l’evento traumatico.
Sono proprio le nostre risposte incomplete al trauma che vanno a costruire quegli schemi motori conservati all’interno della nostra memoria procedurale che attuiamo inconsciamente ed automaticamente nelle nostre reazioni di avvicinamento o evitamento di ciò che riteniamo pericoloso secondo i nostro modello di sopravvivenza. In un altro articolo abbiamo già esplorato, seguendo il modello proposto da NARM(6), come le memorie di traumi vissuti nell’infanzia possano costruire schemi motori e risposte disadattative di sopravvivenza che permangono anche nell’età adulta e possono condizionare il nostro rapporto con noi stessi e con gli altri.
Se da un lato i nostri schemi di sopravvivenza dettati dalla nostra memoria procedurale ci hanno permesso di sopravvivere, nel corpo e nel sistema nervoso dei soggetti traumatizzati ove permane costantemente il senso del pericolo e del terrore, quegli schemi non cessano mai di disattivarsi procurando una serie di reazioni impulsive che lasciano l’individuo in preda all’angoscia, alla confusione e all’alienazione. Visti da fuori, da una persona non traumatizzata, sembrano reazioni esagerate e facilmente le si giudica imputandole ad un “brutto carattere” o a un essere asociale o sociopatico (non è escluso che certe forme di sociopatia si possano sviluppare proprio a causa di traumi non risolti che di fatto portano ad una interruzione e separazione da un contatto sociale sicuro e difficoltà relazionali).
Dopo questo excursus sulle varie tipologie di memoria, ora abbiamo le basi per poter comprendere come agiscono i ricordi detti “falsi positivi” e i “falsi negativi” dentro di noi e come possiamo cadere facilmente preda di falsi ricordi al punto da arrivare a credere fermamente che qualche episodio, in particolare se connotato da un alto tono emotivo, sia realmente accaduto.
La trappola dell’autenticità e i falsi ricordi
La nostra mente è costruita, per ragioni evolutive, a sospettare la presenza di un pericolo ovunque, sia che esso sia probabile che improbabile. I nostri sensi sono programmati per reagire a ogni sollecitazione o stimolo esterno che possa minacciare la nostra sopravvivenza. Se ad esempio, stiamo passeggiando tranquillamente in un bosco e sentiamo un forte rumore provenire da un cespuglio, in automatico si attiva una precisa sequenza in risposta a questa sollecitazione che ci mette in allerta per decidere, in frazioni di secondo, quale comportamento adottare in base alla circostanza. Se dal cespuglio esce un cagnolino, tiriamo un respiro di sollievo e continuiamo a passeggiare, ma se dal cespuglio esce un cinghiale che inizia a correre verso di noi possiamo tutti immaginare cosa faremmo in un istante in risposta a quel pericolo. La gravità di questa minaccia è misurata in base alle emozioni “negative” che suscita dentro di noi, tanto più forte è la paura o la rabbia che proviamo e tanto più la minaccia per noi è reale. Come detto in precedenza, le emozioni plasmano le credenze, e queste a loro volta rinforzano le emozioni. Esiste dunque una relazione diretta tra intensità emotiva percepita e l’autenticità di un evento. Tanto più è accesa l’emozione, tanto più la mente tende a convalidare l’autenticità delle nostre convinzioni.
Ad esempio, se una persona conserva il ricordo traumatico di un intervento chirurgico particolarmente intrusivo, se nell’abreazione provocata da un lavoro terapeutico prova emozioni intense di rabbia e terrore, può erroneamente immaginare quella invasione corporea come uno stupro o una tortura. Se poi quello stato emotivamente carico è stato provocato da un terapeuta o da una pratica catartica e in quel momento ad alta intensità emotiva “suggerisce”, nelle sue interpretazioni o nei discorsi in gruppo, che possa trattarsi di un abuso, ecco che il cliente subisce questa suggestione creando una sorta di “flashback” che verrà preso come una prova di fatto e una spiegazione dei suoi disagi. Questa amalgama di sensazioni, emozioni e immagini evocate nella memoria saranno prese per autentiche, indipendentemente dalla sua rispondenza al vero, col rischio di iniziare magari a seguire un percorso terapeutico sul tema dell’abuso quando in realtà non si è mai verificato.
In alcuni metodi polizieschi, dove vengono usate tecniche aggressive e violente negli interrogatori ad esempio, riescono facilmente a indurre un indagato a rilasciare una falsa testimonianza installando un falso ricordo per alterare o condizionare le prove. La volta successiva l’indagato fornirà questa versione artefatta convinto che sia sua e finendo per credere alla propria colpevolezza.
Diversi esperimenti hanno dimostrato la facilità di installare nella mente delle persone ricordi “traumatici” di cui era dimostrabile la falsità. Celebre è l’esperimento dove si suggeriva intenzionalmente a degli studenti il falso ricordo di essersi smarriti in un centro commerciale(7) e spesso in quei ricordi compariva l’immagine di estranei che li avevano trovati e accompagnati dai genitori. Peccato che dai colloqui con i genitori non risultava che un episodio del genere fosse mai accaduto. Esperimenti come questi hanno indotto molti studiosi a concludere che gran parte dei ricordi recuperati in terapia fosse impiantata a livello inconscio dai terapeuti, involontariamente, o in qualche caso, anche volontariamente.
Elisabeth Loftus, esperta riconosciuta nel campo della memoria, si è battuta per anni contro le terapie basate sul recupero di ricordi traumatici dimostrando che tanti episodi di abuso infantile cosi evocati erano totalmente falsi(8). Peter Levine cita il caso di un suo paziente Brad che soffriva di una grave depressione a seguito di un trattamento di “recupero della memoria”. Dopo un accertamento preliminare, la terapeuta gli aveva diagnosticato che i sintomi che presentava erano simili a quelli di pazienti vittime di sevizie rituali. Dopo un anno di terapia di gruppo, dove veniva sottoposto a violente abreazioni emotive, alla fine (guarda caso) aveva ritrovato tanti “ricordi” del passato che somigliavano moltissimo a quelli degli altri membri del gruppo. Dopo un lavoro di Somatic Experiencing, si scoprì che la causa del suo disagio era dovuta alle cure della madre che, goffa e imbarazzata, dovette assisterlo nel medicargli il pene a seguito di un intervento di circoncisione effettuato per ragioni mediche. Alla fine Bred fu capace di denunciare la terapeuta all’autorità pubblica la quale si vide alla fine ritirare l’autorizzazione a praticare il trattamento(9).
Talvolta può bastare anche una minima allusione del terapeuta, in una sessione individuale o in terapie di gruppo, quando il cliente si trova in uno stato emotivamente acceso e bisognoso di una risposta, sui suoi rapporti col padre ad esempio, che immediatamente quello stato emotivo viene associato a qualche episodio di violenza subito in passato che magari nulla avevano a che fare col padre. Succede cosi che invece che mettere fine allo stato di eccitazione mediante una terapia efficace, l’insieme di sensazioni, immagini ed emozioni continuano ad arrivare e ad alimentarsi tra di loro aumentando il disagio e il significato che si è sovrapposto a quel disagio, col rischio che la reale memoria traumatica soggiacente venga ulteriormente ritraumatizzata o, nel peggiori dei casi, spendiamo anni di terapia cercando di trasformare un ricordo di fatti mai accaduti.
Ritengo che questo rischio sia presente anche nel lavoro con le costellazioni familiari da parte di terapeuti o conduttori che non sono in grado di leggere il campo morfico in risonanza con le memorie procedurali presenti nel cliente, rimaste associate a un particolare evento traumatico accaduto nella sua vita attuale o per irretimento transgenerazionale, finendo cosi per suggerire o proporre significati e spiegazioni di un certo sintomo o disagio riconducendoli a fatti mai accaduti.
Con Somatic Experiencing non si lavora sulla rievocazione del trauma, tantomeno con strumenti catartici ad alta intensità emotiva, al contrario si guida la persona ad uscire dal vortice del trauma lavorando in maniera titolata con le sensazioni corporee residue (felt sense) per poter accedere alle risposte senso-motorie rimaste incomplete e che hanno prodotto schemi motori disadattativi rimasti congelati nella memoria procedurale corporea. Cosi facendo, si riesce al contrario a ridurre l’intensità emotiva rimasta legata al trauma aiutando il cliente a contenere le proprie sensazioni ed emozioni sopraffacenti evitando cosi di soggiacere alla mente nel suo tentativo di cercare subito e a tutti costi una spiegazione ai propri sintomi (e dunque di non cadere facilmente preda di facili e veloci suggestioni). Dal momento che i sintomi diventano via via meno sopraffacenti, il cliente acquisisce la sua capacità e competenza di contenimento diventando essi meno paurosi e dolorosi ed accedendo alla possibilità di scegliere e modificare le risposte automatiche di sopravvivenza. Come sintetizza Peter Levine: “Somatic Experiencing “depotenzia” i ricordi impliciti e procedurali disturbanti, legati al trauma, rendendoli inoffensivi mediante la titolazione e la contemporanea evocazione di esperienze interocettive corroboranti”. Lavorando con quello che c’è qui e ora nel sistema nervoso del cliente, senza andare a scavare nei ricordi traumatici con continue dolorose abreazioni, non vi è alcuna possibilità di condizionare o suggestionare la persona inducendolo a costruire nuovi e inesistenti significati sul proprio sintomo. Completando la risposta biologica all’evento sopraffacente, i ricordi traumatici impliciti e procedurali si depotenziano, perdendo la loro carica emotiva, e possono ora integrarsi con i ricordi normali nella successione temporale della nostra memoria autobiografica. La delicatezza di questo processo facilita la persona ad accedere spontaneamente alle proprie memorie emotive e corporee disaccoppiando significati distorti o associati dall’emergenza della mente a trovare spiegazioni veloci scoprendo le azioni protettive necessarie per uscire dalla sofferenza e acquisire una maggiore consapevolezza della propria situazione.
NOTE
1. Bessel Van Der Kolk, “Il corpo accusa il colpo – mente, corpo e cervello nella elaborazione delle memorie traumatiche”, Raffaello Cortina Editore, 2015.
2. Con abreazione si intende una reazione terapeutica in cui si “rivive” un evento traumatico che era stato rimosso e di cui si riprende coscienza.
3. E’ risaputo che la catarsi stimola abbondanti scariche di adrenalina e l’afflusso di endorfine, gli oppioidi naturali, che attenuano il dolore o il disagio ma con il rischio potenziale di sviluppare dipendenza. Vedi J.D.Levine, H.Gordon, H Fields, “Analgesic Responses to Morphine and Placebo in individuals with Postoperative Pain”, Pain, 10, n.3, 1981.
4. Antonio R.Damasio, “Emozione e Coscienza” – Edizioni Adephi 2000
5. Peter Levine, “Trauma e memoria – una guida pratica per capire ed elaborare i ricordi traumatici”, Astrolabio, 2018
7. Vedi Bassel Van Der Kilk, “Il corpo accusa il colpo”, cit.
8. Vedi Peter Levine “Trauma e memoria”, cit
9. Vedi Peter Levine “Trauma e memoria”, cit
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